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Diagnosi genetica preimpianto: indicazioni e controindicazioni
«La diagnosi genetica preimpianto consente di analizzare il contenuto cromosomico degli embrioni prima di essere trasferiti nell’utero». È Maria Giulia Minasi, responsabile del laboratorio di Medicina della Riproduzione dell’European Hospital di Roma, a descrivere potenzialità e limiti di questa tecnica.
La diagnosi preimpianto non è consigliata esclusivamente a chi ha problemi di fertilità: «È in grado di diagnosticare malattie genetiche e, di conseguenza – ha spiegato Minasi – rappresenta uno strumento molto utile per quelle coppie che, pur essendo fertili, sono portatori di patologie, hanno un figlio affetto da una particolare malattia o hanno dovuto interrompere gravidanze passate per gravi anomali fetali». Per le coppie infertili, invece, la stessa diagnosi genetica ha una seconda utilità: aumentare la possibilità di impianto degli embrioni. «Questa analisi – ha specificato la responsabile del laboratorio di Medicina della Riproduzione dell’European Hospital di Roma – permette di individuare la quantità di cromosomi: un’anomalia nel loro numero aumenta i fallimenti dell’impianto e le probabilità di aborto. Inoltre, tali anomalie cromosomiche crescono all’aumentare dell’età materna e, pertanto, la diagnosi preimpianto è stata proposta come tecnica da utilizzare per donne che desiderano un figlio in età avanzata. È utile anche in casi di aborti ripetuti, di tecniche di fecondazione assistita fallite più volte o quando l’infertilità maschile è legata a parametri seminali molto severi».
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«La discussione in letteratura su quando utilizzare o non utilizzare questa tecnica – ha continuato l’esperta – è ancora molto accesa. Di certo, la diagnosi preimpianto per le anomalie cromosomiche consente di aumentare i tassi di gravidanza per transfer e riduce il rischio di aborti e di gravidanze multiple. Per questo, è importante che i centri di procreazione assistita informino sempre i pazienti della sua esistenza, mettendoli in condizione di scegliere liberamente».
E prima di prendere una decisione definitiva sarà meglio conoscere anche controindicazioni. Ci sono dei rischi per l’embrione analizzato? «La tecnica utilizzata – ha risposto Maria Giulia Minasi – è considerata invasiva. Prima di effettuarla è necessaria coltivare l’embrione fino allo stadio di blastocisti, lo stadio più avanzato che si può ottenere e che si raggiunge tra il quinto e il settimo giorno di coltura in vitro. Dopodiché, con una pipetta e con l’aiuto del laser, verrà staccato un pezzettino delle cellule più esterne, quelle che in futuro andranno a formare la placenta, evitando di toccare quelle interne, dalle quali si originerà il feto. È stato dimostrato che staccando questa parte esterna non c’è impatto sull’embrione. Ma è necessario che questa tecnica venga effettuata da mani esperte – ha concluso la specialista -, in centri in cui la diagnosi preimpianto è una prassi frequente».