Parla il Direttore Nazionale Centro Studi UIF: «Troppi contenziosi alimentati strumentalmente. Anche noi avvocati denunciati da clienti che non accettano di perdere…»
«Non metabolizziamo più il dolore, la morte, non metabolizziamo più la sconfitta, perché questa è una società molto competitiva, quindi perdere una causa equivale a perdere la faccia». Una considerazione amara quella dell’Avvocato Roberto Zazza, Direttore Nazionale Centro Studi UIF, che ha riflessi sul piano culturale e sociologico e che ha origine sul travisato principio del “diritto alla felicità” di settecentesca memoria… Abbiamo intervistato il noto Avvocato in occasione del convegno ‘Avvocati e medici. I profili delle responsabilità e le strategie difensive’ organizzato presso la Corte d’Appello di Roma con OMCeO Roma e la partnership media di Sanità Informazione.
Avvocato Zazza, è al centro dell’attenzione il tema della responsabilità medica e del rapporto tra medici, avvocati e cittadini. Lei rileva in certe degenerazioni un profilo soprattutto culturale, quello delle aspettative che le persone nutrono nella medicina. Aspettative che però a volte generano qualche equivoco.
«Sì, io di professione faccio l’avvocato e non mi impanco a psicologo delle masse, però 50 anni di professione mi hanno insegnato molto. Si tratta di una battaglia culturale: in Italia si è alterato il rapporto tra cittadino e Stato. Il cittadino, in sostanza, ha perso la sovranità, ha perso il controllo della “macchina”, e quindi vede lo Stato se non come un amico, senz’altro come un ente erogatore di servizi utili, ai quali lui ha diritto. È il “diritto alla felicità”, un principio balzano e molto puritano previsto prima nella Carta dei Diritti dell’Uomo del 1776, ai tempi dell’origine della rivoluzione americana, e poi ripreso nella costituzione francese. Da un punto di vista culturale, o si fa una campagna in cui queste cose vengono dette, e medici e avvocati vengono formati a dirlo, o non ne esce. Si possono ottenere dei buoni risultati solo spingendo sulla funzionalità della macchina, anche se poi la stessa non assicura la guarigione. Non metabolizziamo più il dolore, la morte, non metabolizziamo più la sconfitta, perché questa è una società molto competitiva. Quindi anche perdere una causa divine inaccettabile, equivale a perdere la faccia».
Ovviamente, l’errore medico va perseguito ed è diritto legittimo del cittadino avere il giusto risarcimento. Ma da questo ad arrivare ad iniziative un po’ strumentali che spingono a livello comunicativo le persone ad agire per avere un rimborso, si corre il rischio di alimentare un mercato che non è esattamente quello del diritto.
«Questa è la prova provata che la tesi che sostenevo prima è giusta, perché se non ci fossero coloro che non metabolizzano questo tipo di situazione, non saremmo qui a parlarne. Personalmente, sono stato testimone di quanto accaduto ad un collega, tratto in giudizio per qualche centinaio di migliaia di euro per una responsabilità professionale estremamente evanescente in cui però esisteva un buco probatorio in quanto la documentazione non era completa. È finita che il collega, che pure aveva ragione, ha accettato di pagare 20mila euro in comode rate pur di togliersi dagli impacci, perché un professionista non può portarsi dietro questo tipo di situazioni per anni e farsi rovinare la carriera. Questo è un esempio di fatto disciplinare contro cui dovremmo batterci tutti, medici e avvocati, perché viola i doveri di correttezza».