Lo scrittore nel suo romanzo “Le tre del mattino” racconta la storia di Antonio, un adolescente epilettico che, attraverso la sua malattia e, soprattutto, il suo percorso di guarigione, scopre il suo vero talento e ritrova l’amore paterno
«Mia madre mi sta accanto da tutta una vita, si prende cura di me. Ma non ha mai capito cosa fosse questa mia malattia. Ora, grazie al suo libro, anche lei sa cos’è l’epilessia, sa quello che mi succede». È una delle frasi che lo scrittore Gianrico Carofiglio ricorda con maggiore emozione. Una delle tante che ha ascoltato dopo aver pubblicato il suo romanzo “Le tre del mattino”, in cui racconta la storia di Antonio, un giovane epilettico.
Come Antonio, 60 milioni di persone in tutto il mondo, di cui 6 milioni in Europa e circa 600 mila in Italia, sono costrette a fare i conti con questa patologia che, spesso, li allontana dalla realizzazione dei propri sogni. Ed invece Carofiglio, con il suo romanzo, racconta come sia possibile trasformare la malattia in un’opportunità: «L’opportunità di scoprire il proprio talento, finora rimasto nascosto», spiega lo scrittore. E che una patologia come l’epilessia possa diventare una risorsa non è un’utopia: «Il mio romanzo – sottolinea Carofiglio – è ispirato in modo diretto ad una storia realmente accaduta, che mi fu raccontata da un amico, una decina di anni prima della pubblicazione del libro».
«Antonio – continua il romanziere, descrivendo la trama del racconto – scopre non solo il suo talento, ma anche la responsabilità che ne scaturisce. Ricordo sempre una frase per me molto significativa della scrittrice statunitense Erica Jong: “il talento non è così raro: in molti ce l’hanno. Quello che è raro è il coraggio di seguire il talento nei luoghi oscuri in cui conduce”».
Nel romanzo non si parla solo di malattia: «È un libro che piuttosto racconta la guarigione. La patologia – aggiunge Carofiglio – offre anche una seconda opportunità: raccontare due vite che si incontrano, quelle di un padre e di un figlio fino a quel momento quasi perfetti sconosciuti». I due si ritrovano a Marsiglia, città nella quale Antonio incontrerà lo specialista che lo condurrà alla guarigione. E così, il romanzo, senza l’utilizzo di pseudonimi rende omaggio anche uno dei più grandi luminari della neurologia di tutti i tempi: il dottor Gustaut. «L’unico personaggio chiamato con il suo vero nome», dice Carofiglio.
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La patologia è descritta in termini estremamente corretti: il racconto, pur nel suo stile romanzesco, è così ricco di particolari scientificamente validi da aver ottenuto il plauso della Lice, la Lega italiana contro l’epilessia. È stato proprio Gianrico Carofiglio, infatti, con le pagine del suo romanzo, ad inaugurare il 42° Congresso Nazionale Lice, ospitato in questi giorni a Roma.
Occasione durante la quale, Carofiglio ha rivelato al pubblico il suo segreto: «Come ho fatto ad offrire una descrizione così puntuale della patologia, pur non essendo un medico? Ho studiato. Quando si scrive un romanzo, soprattutto se di tipo realistico, si stipula un patto con chi legge: far entrare il lettore nel libro, facendogli dimenticare ciò che lo circonda. Mentre si legge il proprio mondo dovrà essere solo quello descritto nel libro stesso. E affinché ciò accada, nel romanzo non devono esserci cose che facciano all’improvviso percepire a chi legge elementi di finzione. E allora – aggiunge Carofiglio – per raccontare di malattia e di guarigione ho parlato con pazienti e con medici, oltre a consultare libri di medicina. Così come avevo fatto negli anni precedenti quando, in un altro mio libro, ho parlato di psicoterapia».
Uno studio attento dell’epilessia che ha permesso al romanziere anche di collocare la storia nella giusta dimensione temporale: all’inizio degli anni ‘80. «Il dottor Gustaut – racconta lo scrittore – prima di poter sancire la guarigione definitiva di Antonio lo sottopone al “test di scatenamento”: due giorni e due notti di veglia, togliendo bruscamente il farmaco e somministrando addirittura degli eccitanti. Procedura non più utilizzata dal 1986».
Da allora di progressi scientifici ne sono stati fatti tanti: la ricerca ha offerto nuove cure, sempre meno invasive. Ma nonostante tutto, l’epilessia continua ad essere definita una “patologia sociale” perché, la maggior parte delle persone che ne soffre, oltre a subire il disagio della malattia, continua a nascondere la propria condizione per timore di essere discriminato o emarginato. E la storia di Antonio offre un’ opportunità anche in questa direzione: una possibilità concreta di superare lo stigma. E già successo e potrebbe riaccadere: «Una donna – racconta Carofiglio – si alzò durante la presentazione del mio libro e, davanti a tutti, disse di essere epilettica. Era la sua prima rivelazione pubblica sul suo stato di salute».