La psicologa Cinzia Correale: «La scelta dell’animale per la pet therapy dipenderà dalle sue caratteristiche comportamentali e dal suo temperamento. In Italia è consentito coinvolgere asini, cavalli, cani, gatti e conigli»
Hanno imparato prima a prendersene cura, poi a cavalcarli. Così alcuni malati di Parkinson, attraverso la riabilitazione equestre, hanno migliorato le loro capacità motorie e diminuito i livelli di ansia e depressione a favore di un complessivo aumento della qualità della vita percepita. «Grazie ad uno studio condotto dall’Istituto Superiore di Sanità e dall’Istituto Santa Lucia di Roma, è stato possibile dimostrare l’efficacia della pet therapy, con coinvolgimento di cavalli, sulla malattia di Parkinson», spiega Cinzia Correale, psicologa e coordinatrice del Network di esperti in interventi assistiti con gli animali dell’Ordine degli Psicologi del Lazio.
I pazienti coinvolti nella ricerca, nessuno con precedenti esperienze equestri, hanno partecipato a sessioni di gruppo di 60 minuti, una ogni sette giorni, per cinque settimane consecutive. Tutti i partecipanti si sono mostrati soddisfatti e nessuno di loro ha abbandonato il programma.
«Ma la malattia di Parkinson o il trattamento di demenza e malattie neurodegenerative sono solo alcune delle patologie per cui può essere applicata la pet therapy – continua Correale -. Questa co-terapia è, infatti, un intervento mediato dall’animale che si fa attraverso l’attivazione di un’equipe multidisciplinare e può avere diversi obiettivi. Si distingue in: attività assistita con l’animale, educazione assistita e terapia. Le prime due tipologie hanno una finalità ludico-educative, l’ultima riabilitativo-terapeutica».
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Ma quali sono gli animali che maggiormente vengono coinvolti? «Dal 2015 – dice l’esperta – l’Italia fa riferimento a delle Linee guida, emanate dal ministero della Salute, dove sono indicate le specie con le quali possiamo lavorare: asino, cavallo, cane, gatto e coniglio. La scelta dell’animale dipenderà dalle sue caratteristiche comportamentali e dal suo temperamento. Si potrà stabilire che un cane sia adeguato ad un determinato intervento, ma la successiva selezione dovrà essere ben oculata con l’ausilio di un veterinario esperto in comportamento».
Per chiarire l’importanza di questa scelta, la dottoressa Correale racconta una sua esperienza sul campo: «Di recente ho trattato una bambina di sei anni con disturbo oppositivo provocatorio, che riguarda la sfera della regolazione emotiva. La paziente aveva forti scatti di ira, improvvisi e duraturi. Di fianco all’intervento tradizionale è stato scelto di attivare un percorso di pet therapy con un setter inglese, un cane che, per dimensione e stazza fisica, suscitava nella bambina un certo rispetto, elemento di aiuto per il trattamento di una paziente con difficoltà relazionali. A livello comportamentale, invece – sottolinea la psicologa – questo cane è timido e riservato e, quindi, la bambina si è facilmente rispecchiata nel suo temperamento. Grazie alla pet-therapy si è aperta una breccia nel suo mondo interiore ed è riuscita ad attivare un soddisfacente livello di comunicazione ed interazione sociale».
L’animale scelto deve essere anche adatto a tollerare gli atteggiamenti del paziente con cui andrà ad interagire, senza che la sua salute ne risenta. «Il benessere dell’animale – commenta Correale – è un aspetto che non deve essere mai sottovalutato. Inoltre, affinché la terapia sia efficace anche l’animale deve beneficiare della relazione e non sentirsi stressato dalla presenza dell’uomo».
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Ed è proprio per questo motivo che, come dimostrato da alcuni studi, la delfino-terapia non è consigliabile: «Il delfino non è un animale domestico, non sappiamo se effettivamente benefici della presenza dell’uomo. Trascorrere una giornata in vasca con il delfino potrebbe essere senz’altro un’esperienza piacevole per molti, ma – aggiunge l’esperta – l’animale potrebbe ricavarne anche solo stress».
Per gli esseri umani, invece, le controindicazioni sono poche, ma non sempre facilmente riconoscibili: «Si tratta di allergie particolari, come al pelo, o fobie specifiche che impediscono il contatto con l’animale – spiega Correale -. La valutazione delle controindicazioni deve essere affidata sempre ad un occhio esperto. Conoscerle è importantissimo, soprattutto nel caso di interventi con persone affette da particolari patologie. Pensiamo ad esempio ad individui con disturbo dello spettro autistico non verbali, e che quindi non possono dirci se hanno paura dell’animale oppure no: l’effetto non potrà essere conosciuto finché non ne avranno un’esperienza diretta, ma nello stesso tempo l’operatore dovrà essere preparato all’evenienza e non sottovalutare i possibili effetti negativi, a discapito dei benefici. Valutare con rigore le controindicazioni non significa sminuire “il potere” dell’intervento, ma anzi garantirne il risultato. Per tutti gli altri – conclude la psicologa – la pet therapy non potrà che far bene alla salute».