Registro nazionale, accordo Mec e deficit nell’assistenza sul territorio, sono i temi affrontati con la Presidente Associazione Italiana Centri Emofilia (AICE), Elena Santiago affrontati in occasione della Giornata mondiale dell’emofilia. La malattia rara, che affligge circa 5 mila persone in Italia, è al centro del progetto Destinazione Santiago
Vivere l’emofilia senza sentirla un ostacolo, si tratta di un lungo cammino quello pensato da Destinazione Santiago: il progetto, al via dal 2 settembre, ideato per consentire a un gruppo di persone che convivono con questa malattia di percorrere il celebre percorso battuto ogni anno da oltre 200 mila persone. Un modo anche per sfruttare i benefici offerti dall’attività fisica e dal contatto con la natura come opportunità di riflessione su sé stessi. I camminatori partiranno da Sarria in Galizia e percorreranno 20 km al giorno per 6 giorni, lungo percorsi caratterizzati da diversi gradi di difficoltà, accompagnati da un ortopedico, un’ematologa e una fisioterapista.
In Italia sono più di 5 mila le persone con emofilia. In concomitanza con la Giornata mondiale dell’emofilia, celebrata lo scorso aprile, abbiamo intervistato Elena Santagostino, Presidente Associazione Italiana Centri Emofilia (AICE) che ci ha raccontato lo stato dell’arte riguardo all’assistenza dei pazienti.
Esiste un Registro nazionale delle coagulopatie congenite emorragiche, di cosa si tratta?
«Si tratta di un registro fondamentale perché ci dà i dati epidemiologici di queste malattie emorragiche ereditarie in Italia. È un registro che è alimentato dai dati dei centri emofilia, che vengono raccolti attraverso uno strumento che è messo a disposizione dall’Associazione italiana centri emofilia. Uno strumento informatico che consente la raccolta dati, di trattamento dei pazienti e clinici. Questi dati poi vanno a convergere e alimentare un registro che è presso l’Istituto Superiore di Sanità. Questo schema di raccolta dati era già presente in Italia da tempo, naturalmente adesso si va via via formalizzando, perché la normativa stessa richiede un’organizzazione di questo tipo e addirittura adesso si rendono necessari registri di questo tipo anche a livello sovranazionale, a livello europeo. In particolar modo per le malattie rare come l’emofilia».
Una buona notizia è l’accordo Mec, di cosa si tratta?
«Riguarda sostanzialmente l’organizzazione dell’assistenza sul territorio per queste malattie emorragiche congenite. Quindi come dovrebbero essere organizzati i centri specialistici, ma anche come dovrebbe essere organizzata l’assistenza negli ospedali, nelle strutture ambulatoriali, nei pronto soccorso e in generale sul territorio. Siccome l’emofilia è una malattia rara ma è anche una malattia cronica, non ancora curabile, perché di emofilia non si guarisce, è necessaria un’assistenza per tutta la vita. Si tratta di un’assistenza multidisciplinare che quindi richiede un’organizzazione specifica. Questo accordo è stato sottoscritto dalla Conferenza Stato-Regioni già nel 2013, purtroppo nel 2019 ancora non siamo corroborati da tante buone notizie che ci devono arrivare da ciascuna regione d’Italia per poterlo vedere attuato. Alcune regioni lo hanno recepito, cioè lo hanno ricevuto e però non lo hanno ancora attuato. Sono poche quelle che lo hanno attuato a pieno. Per cui lo sforzo dell’associazione italiana centri emofilia e della Federazione delle associazioni dei pazienti emofilici, è quello di “andare a bussare” alla porta delle varie regioni e chiedere l’attuazione. Chiedere ovviamente la messa a disposizione delle risorse che servono per attuarlo e lo sforzo in termini di politica sanitaria per organizzare l’assistenza di queste malattie nella maniera più adeguata. Per di più comporta anche un risparmio, perché se curati bene il Sistema sanitario nazionale risparmia».
Quali sono i deficit al momento? Negli ospedali, nei centri emofilia cosa manca al paziente?
«Dipende naturalmente dalle varie Regioni e dai vari centri, però noi in generale soffriamo di carenza di personale. Non solo personale medico, ma anche infermieri. Questa malattia richiede un’assistenza multidisciplinare: fisioterapisti esperti, ortopedici esperti; perché colpisce vari aspetti della salute e quindi richiede un approccio di diverse specialità mediche e anche chirurgiche. Quello che manca ancora è il recepimento di un’organizzazione dell’assistenza sanitaria sul territorio che faccia sì che il paziente possa trovare vicino casa un’assistenza di base e via via sul territorio anche servizi di alta specialità che per le malattie rare ovviamente non sono presenti ad ogni angolo di strada, però devono essere organizzati in modo che il paziente sappia dove potersi rivolgere per esempio per il counseling genetico oppure per una chirurgia ortopedica complessa oppure semplicemente per farsi aiutare nel trattamento endovena che è un trattamento che deve fare tutte le settimane e alcuni di questi pazienti magari hanno bisogno di assistenza infermieristica».