Il chirurgo plastico: «Il mio sogno più grande è realizzare un Centro per i bambini vittime di guerra. Sarebbero moltissimi i medici e i professionisti sanitari disposti ad operare come volontari. Servono fondi per il trasporto in Italia di questi piccoli pazienti»
Cosparso di benzina e poi dato alle fiamme. Congelato al punto da perdere l’uso delle mani nel disperato tentativo di salvare un amico intrappolato nella neve. Sono solo due delle tante storie quotidiane che continuano a consumarsi non troppo lontano da qui. Storie di giovani torturati in Libia o di altri che, pur di fuggire da questi orrori, hanno preferito imbarcarsi ed intraprendere un vero e proprio viaggio della speranza. Storie che Massimo Del Bene, direttore responsabile del reparto di Chirurgia plastica ricostruttiva, chirurgia della mano e microchirurgia ricostruttiva dell’Ospedale San Gerardo di Monza, racconta a Sanità Informazione.
«Da circa tre anni – dice Del Bene – curiamo migranti scappati dalle torture dei lager di diversi paesi dell’Africa subsahariana. Si tratta nel maggior parte dei casi di uomini giovanissimi, che hanno in media vent’anni. Hanno le mani schiacciate, tagliate da un machete, ustionate dalla benzina. Immagini che ci riportano al Medioevo, che ci parlano di torture primordiali. Sì certo – sottolinea il chirurgo plastico -, a quei tempi non esisteva la benzina, ma una tortura simile veniva probabilmente inflitta con l’olio bollente».
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Sarebbero tante le vicende da raccontare, ma ne bastano alcune per spiegare tanto orrore: «Un ivoriano di 18 anni che aveva provato ad attraversare d’inverno il Fréjus – spiega Del Bene -, nel tentativo di salvare un amico rimasto intrappolato nella neve, ha perso tutte e dieci le dita, congelate. In questi casi l’intervento chirurgico più idoneo, in alternativa alle protesi, è trapiantare le dita dei piedi alle mani. Ancora – continua Del Bene -, potrei raccontarvi le torture subite da un altro giovanissimo migrante dato alle fiamme, con segni profondissimi sugli arti superiori e sul tronco». Segni che raccontano soprusi spesso di un tempo passato: «In questi casi la difficoltà maggiore per noi medici è intervenire su ferite a volte vecchie di anni – sottolinea lo specialista -. Ossa delle mani che si sono calcificate in modo errato, così come cicatrici deformi di ferite non curate. Di solito, applichiamo le nostre tecniche chirurgiche a vittime di incidenti avvenuti di lì a poche ore, come può accadere ad un operaio ferito da un macchinario durante il suo turno di lavoro. In questo caso utilizziamo una chirurgia cosiddetta post-traumatica. I migranti, invece, arrivano da noi molto più tardi ed hanno bisogno di un intervento diverso che io chiamo “chirurgia della tortura”».
Ed è proprio il contatto ravvicinato con questi orrori che ha spinto Massimo del Bene verso nuovi progetti umanitari: «Il mio sogno più grande è realizzare un Centro per i bambini vittime di guerra. I piccoli trattati sul posto sono curati con una chirurgia di guerra che la maggior parte delle volte prevede soluzioni drastiche, come l’amputazione di un braccio o di una gamba. È vero, in questo modo gli si salva la vita, ma contemporaneamente li si condanna ad uno spiacevole destino. In certi luoghi si sopravvive grazie a lavori manuali, che richiedono molta fatica fisica, lavori non adatti ad una persona a cui manca un arto. In altre parole, molti di questi bambini amputati sono spesso destinati ad un futuro di mendicanti. Curarli in Italia, in questo Centro per vittime di guerra che io immagino commenta il chirurgo – potrebbe non solo farli sopravvivere, ma permettergli di vivere una vita migliore. L’idea sarebbe quella di stabilizzare i pazienti sul posto per poi trasportarli nel nostro Paese: qui potrebbero ricevere cure all’avanguardia, adeguate alla loro situazione e non semplicemente di emergenza». E di personale medico e sanitario disposto a prendersene cura ce ne sarebbe tanto: «Sono moltissimi i medici e i professionisti sanitari che dedicherebbero volentieri parte del loro tempo ad un progetto di volontariato di questo tipo- assicura Del Bene -. Si tratta di specialisti che per diversi motivi non lascerebbero l’Italia per andare personalmente nei luoghi di guerra, ma che sarebbero ben lieti di offrire la propria professionalità gratuitamente. Ovviamente, ci sarebbero da sostenere i costi di trasporto del paziente, del mantenimento del Centro e dell’accoglienza dei familiari che dovranno assistere il paziente durante la degenza e per questo – conclude – speriamo di trovare al più presto un contributo da parte di benefattori privati».