Parla il Direttore sanitario del Milan la correlazione tra calciatori e malattie neurodegenerative sarebbe dovuta allo stress: «Nel momento in cui lo stress tende a diventare sempre più acuto inizia un decadimento delle funzioni fisiologiche nelle 24, 36 e 48 ore successive tanto che il soggetto diventa sempre più vulnerabile»
Tutta colpa dello stress. La maggiore incidenza di malattie neurodegenerative tra i calciatori professionisti evidenziata in una recente ricerca su 7676 atleti scozzesi, sarebbe determinata non da microtraumi, ma da un eccessivo carico psicologico riscontrabile tra i professionisti e non tra i dilettanti. Ne è convinto Mario Brozzi, Direttore sanitario del Milan, secondo cui la pietra filosofale del calcio sarebbe la capacità di divertirsi, ormai forse irrimediabilmente smarrita.
«Io inizierei ad accendere un focus su questa parola terribile che chi fa il medico, ma non solo, deve iniziare a temere: si chiama stress. L’ansia è un dispositivo meraviglioso per poter reagire in ogni evento e situazione acuta però, dal momento in cui dall’acuto si passa al cronico ed una situazione si ripete nel tempo e dura giorni, mesi ed anni senza la capacità dell’organismo di reagire. In quel caso l’evento si consacra e nasce l’adattamento che non sempre è positivo, ma sul lungo termine, in una biochimica tutt’altro che salutare, porta alla malattia».
Cosa succede nel calciatore stressato?
«Quando un calciatore affronta una gara, sia essa contro la prima o l’ultima squadra in classifica, si genera una situazione di stress. Come si affronta dipende dalla personalità e dalla capacità di assorbire le dinamiche positive o negative che ci possono essere. Nel momento in cui lo stress tende a diventare sempre più acuto inizia un decadimento delle funzioni fisiologiche nelle 24, 36 e 48 ore successive, con un interessamento del sistema immunitario tanto che il soggetto diventa sempre più vulnerabile. Quando l’atleta gioca ogni 72 ore, il decadimento non si recupera. Dal momento che non dipende da fatica fisica, ma è indotto da uno stress, dalla sconfitta, dalle pressioni, da quello che succede in campo e sugli spalti, non si supera. E allora cosa si fa? Il corpo inizia a adattarsi con il cosiddetto over reaching e over training, il primo è un fenomeno che ancora si può correggere, il secondo no e non si riesce più ad uscire. L’atleta, che ha il testosterone alto e il cortisolo basso, si trova nella condizione per cui non riesce a recuperare sul piano psicofisico e si genera una inversione di tendenza: il testosterone crolla ed il cortisolo va alle stelle, si crea un malato».
Si può immunizzare il calciatore di fronte a questo stress logorante?
«Solo recuperando il valore ludico del gioco. Per questo dovremmo dare una cattedra a Francesco Totti. Lui ha sempre avuto il giusto approccio al mondo sportivo: per lui il gioco del calcio è sempre stato un divertimento, infatti, benché fosse pagato in maniera scandalosa in questo è sempre rimasto uno splendido dilettante».