«Si tratta di una tecnica estremamente delicata e complessa – ha spiegato la professoressa Flora Peyvandi – ed è la prima volta che si impiega in Italia per curare l’emofilia. Il primo paziente trattato, a quattro settimane di distanza dall’infusione, si trova in buone condizioni di salute»
Si è conclusa la prima terapia genica sperimentale in Italia per trattare un paziente affetto da emofilia A grave. Il trattamento, avviato ad inizio novembre presso il Policlinico di Milano, dopo quattro settimane sta dando riscontri positivi, tanto da permettere al paziente di condurre una vita normale. Se fino ad oggi un paziente emofilico doveva effettuare infusioni regolarmente, anche tre volte alla settimana per tutta la vita, questa nuova terapia gli permetterà di evitare per diversi anni le infusioni e di avere una coagulazione del sangue uguale a quella di chiunque altro.
Questo risultato rappresenta quindi una nuova frontiera per la cura dell’emofilia, che è un difetto ereditario dovuto alla carenza di una delle proteine coinvolte nella coagulazione, (fattore VIII per l’emofilia A e IX per l’emofilia B). Le infusioni erano la condizione indispensabile per ripristinare i fattori VIII e IX ed evitare danni alle articolazioni e frequenti emorragie che possono essere generate da sanguinamenti spontanei o indotti da banali episodi. Con la terapia genica invece si utilizza una tecnica che sfrutta dei virus inattivati (ovvero resi innocui) come trasportatori di DNA, per andare a ‘correggere’ un difetto genetico, inserendo nel paziente il DNA corretto, ripristinando così la funzionalità dei fattori VIII e IX.
«Si tratta di una tecnica estremamente delicata e complessa, già impiegata per trattare pochissime altre patologie – ha spiegato la professoressa Flora Peyvandi, direttore Medicina Generale Emostasi e Trombosi del Policlinico di Milano, professore ordinario di Medicina Interna all’Università degli Studi di Milano e responsabile dello studio clinico – ma questa è la prima volta che è stata impiegata in Italia per curare l’emofilia. Il primo paziente trattato, a quattro settimane di distanza dall’infusione, si trova in buone condizioni di salute e sta conducendo una vita regolare, senza alcun problema. Lo staff del Centro Emofilia Angelo Bianchi Bonomi, in collaborazione con diverse Unità Operative del Policlinico, ha partecipato all’organizzazione di tutte le fasi della procedura ed ora monitora il paziente con una frequenza settimanale».
Professoressa Peyvandi, ad un mese dalla terapia si ritiene che il risultato conseguito sia sicuro o potrebbero esserci delle ricadute?
«I dati di questo trial hanno dimostrato una durata di 3 anni. Per quanto riguarda la possibile tossicità a lunga durata, bisogna dire che in un altro trial clinico, condotto dal Professor Nathwani presso l’UCL di Londra con lo stesso tipo di vettore adenoassociato in pazienti con emofilia B (carenza di FIX), a distanza di 8 anni non si è verificato nessun problema serio. Il parametro da tenere sotto controllo è la geno tossicità, cioè capire se avviene l’integrazione genica pur utilizzando un vettore adenoassociato e se questa integrazione può attivare qualche oncogene. Di nuovo, sottolineo che i dati raccolti finora sono ottimi e studi ulteriori saranno in grado di fornire più conferme. Il metodo per verificare l’eventuale integrazione genomica è l’esecuzione di una biopsia epatica. Già due pazienti negli USA hanno eseguito la biopsia, ma i dati non sono ancora disponibili».
Quali potrebbero essere gli effetti collaterali a lungo termine?
«L’effetto collaterale più frequente e transitorio conosciuto è l’epatotossicità, probabilmente per la reazione del sistema immunitario del paziente che reagisce contro il vettore. Un problema risolvibile con terapia immunosoppressiva, usando il cortisone per un breve periodo di tempo».
Alla luce di questi risultati cosa cambia per il trattamento dell’emofilia?
«Cambia veramente tanto nella vita del paziente. Con questa nuova terapia sembra sia possibile trattare il paziente con una sola iniezione endovenosa nell’arco di almeno 3,5 anni e naturalmente speriamo che possa durare anche molto più a lungo. Bisogna considerare che con le terapie attuali sono necessarie 2, 3 iniezioni endovenose di FVIII oppure iniezioni sottocutanee di farmaci non sostitutivi una volta alla settimana. Inoltre, con la nuova terapia, l’espressione di FVIII rimante costante e non ha alti e bassi; in questo modo il paziente è molto più sicuro nello svolgimento delle sue diverse attività».
Quali sono i costi di questa terapia per la sanità e per il paziente?
«Ancora non si sa. Ovviamente i costi devono essere accettabili e inferiori a quelli statunitensi, e permettere ai pazienti di beneficiare dei risultati ottenuti. Comunque, è facile calcolare i costi. Basta conoscere il costo dei farmaci attuali e il consumo annuale e il calcolo è fatto, ma attenzione perché questi valori sono molto diversi in diversi Paesi e nelle diverse parti del mondo sulla base dei costi variabili per Unità di Fattore VIII».