L’esperta di salute mentale spiega a Sanità Informazione il senso del ‘contratto di rifioritura’, nucleo di azioni per dare sostegno alle persone più in difficoltà: «Amministrazione di sostegno e TSO per non lasciare le persone al loro destino»
Lo Stato deve farsi carico dei soggetti fragili e deboli e non abbandonarli a se stessi. E per far questo deve ricorrere anche alla forza, ma una ‘forza gentile’ che permetta a questi soggetti di rimettersi in piedi e affrontare con il dovuto sostegno le asperità della vita. È questo in sintesi il nucleo filosofico del ‘contratto di rifioritura’, espressione evocativa nata da una suggestione di Gemma Brandi, psichiatra, psicoanalista, esperta in salute mentale applicata al Diritto e poi ripresa dal professore di Diritto privato Paolo Cendon, fondatore dell’associazione Diritti in Movimento. L’abbiamo incontrata al 14° Forum Risk Management di Firenze dove ha partecipato alla Prima Conferenza Nazionale della Fragilità promossa dalla Federazione degli Ordini TSRM e PSTRP e dalla Simedet. «La cosa importante è considerare il debole non solo come un soggetto debole, che poi sarebbe il primo modo di escludere chi vogliamo includere. In realtà c’è una forza in ogni debole, quella che va fatta rinascere» spiega Brandi che poi ricorda l’espressione “coazione benigna” usata anche in ambito internazionale per quei casi in cui «occorre costringere gli altri a fare delle cose che sono utili alla loro vita».
Dottoressa, che cos’è il contratto di rifioritura?
«Tutto è nato da una mia uscita a un convegno romano di Diritti in Movimento in cui citai una poesia di Salvatore Quasimodo che è “Specchio”. La poesia parla della rifioritura di un tronco che sembrava morto. Da questa idea è poi nata l’espressione che Paolo Cendon ha coniato come patto di rifioritura. È qualcosa che consente di vedere le persone che noi diamo per spacciate, senza speranza, soprattutto le situazioni più complesse, di cui non possiamo non occuparci, come situazioni dalle quali invece è possibile uscire, come persone che possono avere una potenzialità di rinascita. Ecco questa è la cosa importante: considerare il debole non solo come un soggetto debole, che poi sarebbe il primo modo di escludere chi vogliamo includere. In realtà c’è una forza in ogni debole, quella che va fatta rinascere. Questo è importante però non è così facile con gli strumenti di cui disponiamo e soprattutto con la cultura che abbiamo più a portata di mano perché per fare questo talvolta bisogna fare anche azioni che possono sembrare sconvenienti».
Faccia qualche esempio…
«C’è quello che io tanti anni fa ho coniato come espressione che è un ossimoro e che designa un paradosso che è la “coazione benigna”, che oggi chiamiamo “coazione gentile” proprio perché la European Psychiatric Association ha coniato questa formula e senza dubbio qualche volta occorre costringere gli altri a fare delle cose che sono utili alla loro vita. Questa cosa che è molto spiacevole, che è molto ‘politically uncorrect’ è però una cosa importantissima. Quindi noi insistiamo per pensare che le situazioni più difficili da trattare hanno necessità talora di essere prese con forza. La forza non è mai violenza, la forza è molto gentile perché ha a che fare con il non abbandonare le persone al proprio destino. È molto facile per i genitori dire di sì, è molto difficile per i genitori dire di no. Il bambino è fragile per definizione ma al bambino occorre dire di no perché senza i no non si cresce e quando una persona non ha dei limiti strutturali utili a costruire la sua vita occorre talvolta che questi limiti siano imposti dall’esterno. Questa è la formula più generosa di occuparsi degli altri ma è faticosa e richiede strumenti. L’amministrazione di sostegno è uno di questi strumenti, ma anche il trattamento sanitario obbligatorio (TSO) è uno di questi strumenti. Anche le alternative al carcere e all’ospedale psichiatrico giudiziario per i malati di mente sono degli strumenti di coazione gentile. Quindi noi dobbiamo imparare a reintrodurre questo concetto come un concetto utile».