«Non sentono ancora ciò che stanno provando, lo capiranno più avanti. Parte del personale sanitario ne uscirà ancora più fortificato, ma quelli che non sono in grado di sopportare un carico emotivo così importante ne usciranno massacrati psicologicamente. Per la popolazione senso di angoscia e impotenza». L’intervista a Giorgio Nardone, psicologo e psicoterapeuta
L’epidemia da coronavirus imperversa sull’Italia e sul resto del mondo. Una corsa contro il tempo che, al momento, sembra essere inarrestabile. Medici, infermieri ed operatori sanitari lavorano da settimane senza sosta, secondo i ritmi dettati da un’emergenza inaspettata di cui nessuno conosce la durata. Una pressione difficile da sostenere soprattutto per chi lavora in rianimazione e nelle terapie intensive che può portare a crolli emotivi da un momento all’altro. In questo momento così difficile, anche i medici hanno bisogno, come tutti, di essere ascoltati, supportati e rassicurati: gestire lo stress e conservare l’energia fisica e psicologica è di fondamentale importanza. «Se aspettiamo che siano loro a chiedere aiuto, si rischia di arrivare quando la maggior parte dei soggetti ha già maturato una patologia più importante». Giorgio Nardone, psicologo e psicoterapeuta, direttore della scuola di specializzazione post laurea in psicoterapia breve e strategica e docente di psicologia del cambiamento alla Link University, ci spiega gli effetti psicologici dell’epidemia su medici infermieri e operatori sanitari.
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Dottore, la minaccia coronavirus è ormai diventata una dura realtà da accettare: qual è lo stato d’animo che prevale nei cittadini?
«C’è tanta preoccupazione, ansia e paura. In generale, il meccanismo dell’ansia per tutti noi è un meccanismo fisiologico, che attiva l’organismo di fronte ad un allarme, è adattivo: fino ad un certo livello ci rende migliori, capaci e più reattivi, ma oltre a una certa soglia manda l’organismo in totale stress psicofisico, provoca incapacità di reagire in modo adeguato e sofferenza. In una situazione di questo tipo, le persone sono spaventate e si sentono impotenti. Di fronte ad un’infezione noi non abbiamo strumenti, nonostante la scienza e la tecnologia siano così avanzate. Per questo, in questo caso, si scatena non l’ansia ma l’angoscia che scatta quando ci sentiamo condannati e senza armi. In questo periodo storico, molte persone non sono solo ansiose ma sono angosciate costantemente. L’angoscia è una paura che deprime perché non posso fare niente per cambiare le cose: siamo di fronte ad una situazione incontrollabile e quello che possiamo fare è solo adottare comportamenti preventivi e precauzioni ma che non rassicurano rispetto alla possibilità di essere contagiati. Mentre l’ansia mi induce a combattere e mi tiene in allarme – se non va oltre la soglia – l’angoscia mi butta giù, mi fa arrendere e mi rende incapace, è un tormento costante che ti consuma. L’ansioso, in termini psicosomatici, è esagitato mentre l’angosciato sente un peso sul petto da sopportare che quasi non respira. La nostra condizione ora è questa».
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Turni massacranti, ritmi insostenibili, senso di incertezza, tensione e paura. Tutto il personale sanitario è sottoposto in queste settimane ad uno stress psicofisico ed emotivo estremamente rilevante…
«Il personale sanitario sta affrontando l’epidemia nonostante non ci sia una terapia, lavora al massimo per far sì che l’organismo non soccomba al virus e reagisca ed è angosciato sugli esiti del singolo paziente. Di fronte a persone con salute compromessa sa già chi ce la farà e chi no e si trova come davanti a un malato terminale ma in emergenza. Questo fa la differenza. Sa già che molto probabilmente il suo aiuto non sarà abbastanza. Gestire questa consapevolezza è difficile: i medici purtroppo vengono lasciati soli e speriamo non si arrivi a dover decidere chi dover curare e chi no. I medici e gli operatori sanitari non sono preparati a questo, non hanno una formazione di tipo psicologico nel loro curriculum, di gestione delle proprie emozioni e di momenti critici. L’esperienza si fa sul campo ma in modo autonomo. Le strategie di coping e la capacità di gestire le situazioni emotivamente stressanti sarebbero decisamente importanti in questo momento da proporre al personale sanitario. Sto lavorando ad un corso specifico sulle strategie di comunicazione per operatori sanitari e personale medico in collaborazione con il provider Sanità In-Formazione: l’obiettivo è conoscere tutti i meccanismi psicologici che vengono indotti sulle persone da una situazione di questo tipo e imparare a far qualcosa per se stessi».
Quali saranno gli effetti psicologici a medio e lungo termine su medici e operatori sanitari?
«Possiamo distinguere in due categorie gli operatori sanitari che affrontano questa emergenza: quelli che sono capaci di assorbire gli urti che ne usciranno ancora più fortificati e quelli che non sono in grado di sopportare un carico così importante che ne usciranno massacrati psicologicamente. Per questo dobbiamo offrire un supporto psicologico a chi lavora in prima linea ora, nell’emergenza. Non sentono ancora ciò che stanno provando, se ne accorgeranno più avanti. Le ferite del guerriero si sentono una volta finita la battaglia».
Parliamo di burnout?
«Io andrei ben oltre il burnout. È la sindrome di esaurimento psicofisico e di distacco emotivo dal ruolo fino ad arrivare a bruciarsi emotivamente; questo non è il caso dei nostri medici che stanno lavorando con passione, non c’è il distacco, la freddezza verso il paziente, è il contrario. In questo periodo i medici stanno dimostrando l’abnegazione e quindi non parlerei di burnout, è un termine sbagliato e improprio per indicare l’emergenza da coronavirus. Qui abbiamo un sovraccarico emozionale: oltre alla fatica effettiva con turni infiniti per medici, infermieri e operatori sanitari di vario tipo, da una parte c’è lo stress emotivo che come essere umano un medico vive di fronte a questa tragedia e di fronte al senso di impotenza che può avere, e dall’altra parte il fatto di dover prendere decisioni anche capitali. Noi dobbiamo far sì che si sia attrezzati per aiutare le persone che hanno attraversato questo perché avranno quasi tutti dei disturbi post traumatici, soprattutto i soggetti deboli, avranno un disturbo post traumatico non da un singolo trauma ma da un susseguirsi di traumi. In questo momento, la cosa importante è proprio quello di avere delle persone in grado di dare un supporto psicologico di tipo terapeutico a chi comincia ad avere dei segnali di cedimento. Se aspettiamo che questo arrivi solo su richiesta, si rischia di arrivare sulla maggioranza dei soggetti quando hanno già maturato una patologia più importante. Sarebbe utile farlo già da adesso ma questo si scontra con il mondo della medicina in cui viviamo, in cui si tende a sottovalutare le conseguenze emotive delle cose e il potere della parola. E invece si dovrebbero attivare già ora negli ospedali le consulenze psicologiche per i medici. La missione del medico è salvare vite ma bisogna stare attenti quando la missione diventa foriera di traumi che ti porti dietro tutta la vita».
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