Lavoro e Professioni 30 Aprile 2020 16:16

Medici competenti e Coronavirus, Colecchia (Cosips): «Non siamo messi in grado di fare il nostro lavoro in sicurezza. Tamponi? Troppi rischi»

«Rivogliamo la dignità di lavorare al pari dei nostri colleghi che lo fanno negli ambulatori. Non possiamo effettuare visite sui camper, senza le attrezzature necessarie e i Dispositivi di protezione individuale. Spero vivamente che questa emergenza cambi le cose, non solo adesso ma anche in futuro»

«Rivogliamo la dignità di lavorare al pari dei nostri colleghi che lo fanno negli ambulatori. Non possiamo effettuare visite sui camper, senza le attrezzature necessarie e i Dispositivi di protezione individuale. Spero vivamente che questa emergenza cambi le cose, non solo adesso ma anche in futuro». La dottoressa Monica Colecchia, medico competente appartenente al Cosips (Coordinamento Sindacale Professionisti della Sanità) è amareggiata per come ormai da tempo vengono trattati i medici del lavoro. «Noi non siamo neanche considerati la Cenerentola della Medicina, siamo forse lo zerbino su cui Cenerentola si pulisce le scarpe». Una situazione di difficoltà lavorativa acuita dall’emergenza Coronavirus. Ma che va superata, secondo la dottoressa Colecchia, una volta per tutte: «La medicina del lavoro non è solo visite – afferma –: noi collaboriamo con il datore di lavoro a 360°, valutiamo insieme i rischi presenti in azienda, suggeriamo come ridurli o eliminarli del tutto, formiamo o informiamo i lavoratori su rischi, procedure, individuiamo con il datore di lavoro chi tra i lavoratori potrebbe essere più idoneo a far parte della squadra di emergenza della ditta, partecipiamo alle riunioni sulla sicurezza, visitiamo regolarmente l’ambiente di lavoro, stiliamo protocolli sanitari e ci occupiamo di sorveglianza sanitaria…La maggior parte delle persone che visitiamo è per definizione “sana” , pertanto, è più facile che venga visitata da noi, piuttosto che dal medico di base: viene da noi una o più volte all’anno, la sottoponiamo a visita medica in base al rischio della mansione svolta ma, se ha bisogno, sa che può chiamarci successivamente al cellulare. I lavoratori sanno che siamo sempre disponibili. Ci siamo per gli altri ma nessuno c’è per noi».

Dottoressa Colecchia, avete preso parte ai tavoli di lavoro per fronteggiare l’emergenza Coronavirus?

«No e non sappiamo perché. Abbiamo chiesto più volte di essere ascoltati, coinvolti in qualsiasi modo. Nulla. Magari dietro c’è qualche dinamica che non conosco. Ma noi medici competenti siamo da sempre, e in questo momento storico ancor di più, i protagonisti, insieme ai datori di lavoro, della tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori nelle aziende, di cui conosciamo le criticità, sappiamo se possono verificarsi o meno situazioni di “assembramento”, conosciamo i rischi. Ma niente, non ci hanno chiamato».

Se lo avessero fatto, quali proposte avreste portato?

«La problematica più grande riguarda il luogo in cui facciamo le visite. Siamo dei medici, dovremmo avere a disposizione un ambulatorio. Invece spesso veniamo mandati in un ufficio, in uno stanzino. Nessuna infermeria, nessun lettino (quelli ce li dobbiamo portare da casa). Insomma, facciamo le visite alla meno peggio, non dal punto di vista qualitativo ma strutturale. Fatta esclusione per le grandi aziende, che magari possono permettersi un luogo idoneo, la maggior parte delle ditte con cui abbiamo a che fare, che sono medie o piccole, non ne sono forniti. Dobbiamo essere messi in condizione di lavorare nei luoghi idonei e con le strumentazioni necessarie. Se l’azienda ne è fornita, bene. Se non ce li ha, le visite possiamo farle nel nostro ambulatorio».

Com’è cambiata la sua vita, sia personale che lavorativa, da quando c’è l’emergenza?

«In questi due mesi la mia vita, ma come quella di tutti, è molto cambiata. Sinceramente, speravo di avere del tempo per pensare un po’ di più alla casa e alla famiglia. Mi sono ritrovata invece a lavorare anche 18 ore di seguito, dalle 6 del mattino fino a quasi mezzanotte. Sto tutto il giorno a telefono e alla scrivania per gestire le problematiche in cui datori di lavoro e lavoratori si sono ritrovati. E, ovviamente, senza percepire nemmeno un euro. Anche far fare i tamponi, quando l’emergenza stava montando, è stato un problema».

Ce ne parli.

«Nelle aziende il virus si è diffuso molto presto. All’epoca molte persone presentavano delle sindromi simil-influenzali che, ovviamente, non si pensava potessero essere quel che sappiamo oggi. Poi si è cominciato a parlare del Coronavirus e noi chiamavamo il reparto di igiene di sanità pubblica per far fare i tamponi ai lavoratori che presentavano quella sintomatologia. Ci siamo riusciti, nella mia realtà lavorativa che è il Veneto (in altre regioni no) ma poi abbiamo dovuto affrontare altre criticità. Come, ad esempio, la sanificazione dei locali dopo la scoperta di un positivo. Personalmente, ho ditte che seguo anche da 15 o 18 anni, ormai mi conoscono e si fidano di me, quindi spesso e volentieri mi chiamano per avere consigli, ad esempio, sui prodotti da usare per sanificare le strutture, e io do i miei consigli anche se non è proprio il mio lavoro. Insomma, abbiamo fatto il possibile per evitare di diffondere ulteriormente il virus. Io dico sempre che noi medici del lavoro rischiamo di essere gli “autisti privati” del virus. Spostarsi da un’azienda all’altra, visitare diverse persone anche a chilometri di distanza, senza i Dispositivi di protezione individuale, significa permettere al virus di diffondersi con più facilità. Ci siamo dovuti battere non poco per avere la possibilità di fare valutazioni a distanza e lo abbiamo ottenuto solo in due regioni, Veneto e Sardegna, grazie anche al lavoro svolto in maniera egregia dal collega Milvio Piras».

Come sono cambiate le cose, almeno dal vostro punto di vista, con i vari Dpcm?

«Il nuovo Dpcm chiede al medico competente tante cose e il loro contrario. Ha messo in discussione la nostra “bibbia”, ovvero il decreto 81 del 2008, decretando che quei lavoratori che sono stati affetti da Covid-19 per i quali è stato necessario un ricovero ospedaliero, devono essere da noi sottoposti a visita medica, previa presentazione di certificazione di avvenuta negativizzazione, come prevista dall’art.41, c. 2 lett. e-ter del D.lgs. 81/08 e s.m.i (quella precedente alla ripresa del lavoro a seguito di assenza per motivi di salute di durata superiore ai sessanta giorni continuativi), indipendentemente dalla durata dell’assenza per malattia, in deroga, quindi a quanto stabilito dal nostro testo unico. Noi facciamo tutto, per carità, solo che coloro che hanno legiferato non sanno che ogni medico del lavoro segue anche 1000 aziende, forse pensano che ci sia un medico del lavoro per ogni azienda e che, quindi, abbiamo la possibilità di essere ad “uso esclusivo”. Poi c’è una difficoltà intrinseca nel fatto che ogni Regione può decidere di gestire la cosa in maniera diversa. Un medico del lavoro può seguire aziende in regioni diverse e quindi deve cercare di adattarsi ad ogni situazione, ad ogni disposizione. Infatti, mentre in alcune regioni la sorveglianza sanitaria non è stata interrotta, in altre abbiamo ottenuto che la sorveglianza sanitaria periodica venisse differita e spostata a quando sarà finita l’emergenza, in maniera tale da poter dare priorità alle questioni più urgenti. Abbiamo ottenuto, in queste regioni, la possibilità di fare una valutazione documentale del lavoratore ma con la nuova circolare ministeriale del 29 Aprile, a differenza del protocollo sanitario allegato all’ultimo DPCM, questa possibilità ci è stata tolta».

Quindi non vi hanno messi subito in condizioni ottimali per garantire la vostra salute e quella dei vostri pazienti…

«Abbiamo continuato anche quando si sapeva del virus, almeno i primi tempi. Molte società di servizio ci imponevano la sorveglianza sanitaria nonostante le disposizioni regionali che la vietavano, pena la disdetta che in molti casi è avvenuta e sta avvenendo. Si doveva lavorare su unità mobili, su camper e senza dispositivi di protezione. Per cui sì, siamo stati esposti al virus. Io stessa non so se l’ho preso o meno. Ma questo è il nostro lavoro. Certo, sarebbe stato meglio farlo in sicurezza, sia per la salute nostra che per quella del lavoratore».

Voi avete la possibilità di fare il tampone? Vi è stato chiesto di farlo?

«Ma non esiste. Siamo assolutamente contrari a fare il tampone. Ci esporrebbe a dei rischi assurdi. Prima di tutto, noi non abbiamo i Dpi, dovremmo comprarli per conto nostro. E poi per ogni paziente dovremmo bardarci da capo a piedi con tute, camici, guanti, mascherine, visiere e ad ogni tampone dovremmo cambiarci completamente e sanificare tutto l’ambiente. Non è possibile. Insomma, ci esporremmo a dei rischi enormi. Inoltre, non dimentichiamo che stiamo parlando di un rischio non prettamente lavorativo ma di sanità pubblica. E, poi, quanti medici hanno contratto il virus o sono addirittura morti nonostante i Dpi? Con il protocollo condiviso del 24 aprile, ci era stata data la possibilità di riammettere al lavoro ex Covid con presentazione della certificazione di negativizzazione di due tamponi. Adesso con le nuove disposizioni della CM dobbiamo sottoporli a visita medica straordinaria, gestire tutte le problematiche che ne conseguiranno (utilizzo di dpi adatti) il 30% dei tamponi è un falso negativo), non tralasciando l’aspetto economico che graverà sul datore di lavoro».

Altre criticità?

«Abbiamo un altro grande problema, una lacuna grandissima che neanche l’ultimo protocollo è riuscito a colmare: i lavoratori fragili, ovvero chi ha più di 55 anni o presenta patologie importanti. Cosa dobbiamo fare con queste persone? Il protocollo del 14 marzo ha stabilito che dobbiamo individuarli e mandarli all’autorità sanitaria. Per un mese e mezzo almeno abbiamo cercato di capire chi è questa autorità sanitaria. I lavoratori sono stati rimbalzati dal medico competente a quello di base, da quello di base al medico competente. Il medico di base non ritiene di essere l’autorità sanitaria competente, ma neanche io posso esserlo. Io non ho la possibilità di mettere in malattia un lavoratore. Quindi da lunedì ci ritroviamo a dover trattare persone fragili senza sapere, al momento, cosa fare con loro. Dobbiamo metterli in malattia? Non è possibile. In ferie? Probabilmente le ha già consumate tutte in queste settimane. Non dobbiamo dare l’idoneità al lavoro? Questo comporta che il lavoratore non venga pagato. Oltretutto potrebbe essere uno di quelli altamente specializzato e qualificato e non facilmente sostituibili in un’azienda che si occupa di un servizio essenziale per la collettività. Cosa dobbiamo fare? L’unica cosa è rimandare la palla al datore di lavoro: è lui che deve metterlo in sicurezza con misure più restrittive. Il tutto, sperando che non si ammali, perché resta il fatto che potrebbe contrarre il Coronavirus anche sul posto di lavoro, e quindi scatta l’infortunio sul lavoro. Insomma, è un cane che si morde la coda. E, a proposito dei lavoratori fragili, nessuno si è posto il problema che tra questi ci sono anche molti medici competenti, perché affetti dalle stesse patologie. Ma c’è ancora un altro problema…».

Quale?

«Le tariffe. Ci sono medici competenti che fanno visite per 10 euro. Non è né sostenibile né concorrenziale. Perché lo si fa? Chiediamolo alle società di servizio. Le ditte pagano le società di servizio e a noi viene disposto il 20%. Ma perché non ci pensa lo Stato? Molti colleghi auspicano ad un’assunzione dal Ssn, lo Stato risparmierebbe e guadagnerebbe tantissimo. In questo modo, inoltre, sarebbe garantita anche l’imparzialità del medico, che viene spesso messa in discussione. Quando vengo assunta da un’azienda la prima cosa che dico è che io sono un medico competente, non compiacente. Se il datore di lavoro vuole dormire sonni tranquilli deve fare totale affidamento su di me perché io faccio l’interesse del lavoratore, e solo così posso fare anche l’interesse della ditta. Esistono però dei colleghi che, come detto, fanno visite a 10 euro, con dietro una società di servizio che ne incassa molti di più. Non è possibile, ci deve essere un tariffario minimo nazionale. Il tutto, poi, in strutture non adeguate. Bisogna dire basta a queste cose, non solo in questo periodo di emergenza ma anche per il futuro».

Con l’emergenza Coronavirus sono emerse diverse criticità relative al Ssn, non solo per i medici competenti…

«In tv, nei telegiornali, sui giornali, non si parla mai dei medici competenti. Non si sa neanche cos’è il medico competente, cosa fa. Per la maggior parte delle persone, il medico competente è quello che ha studiato e sa fare il suo lavoro. Non è possibile continuare così. Si parla di una ripresa in cui dovremmo occuparci deli ex-Covid, di chi è stato in quarantena fiduciaria o obbligatoria, dei fragili. Ma non possiamo occuparci delle visite periodiche. Ora dobbiamo stare vicino al datore di lavoro per contenere la diffusione del virus e solo quando sarà finita l’emergenza potremo tornare al nostro lavoro “normale”. Personalmente, ho centinaia di aziende da seguire e posso farlo da remoto. Devo fare le visite? Va bene, ma solo a determinate condizioni. Anche in ospedale le visite non urgenti o vengono differite o vengono fatte online. Il medico di medicina generale usa la telemedicina. Perché non possiamo farlo anche noi? Le visite periodiche, per dirle, potremmo farle da remoto. La telemedicina, il teleconsulto, la televisita esistono e sono normate, è ora di sburocratizzare l’Italia».

 

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