Il contributo di Luciano Lucanìa, Presidente della Società italiana di medicina e sanità penitenziaria
La sanità penitenziaria ha vissuto, anche lei, l’esperienza della pandemia da Coronavirus. Non era impreparata alle malattie virali: il carcere convive da decenni con HIV ed epatite B e C, ma certo la velocità di diffusione e l’impatto drammatico sul territorio, ed in particolare su alcuni territori, erano del tutto sconosciuti ed oltremodo preoccupanti. L’impatto c’è stato, certamente limitato e più evidente nelle aree della nazione più colpite. Il distanziamento sociale, che nel caso ha avuto come primo riflesso la sospensione dei colloqui e la loro conversione in videochiamate con le tecnologie attuali, comunque maggiori nella frequenza, è stata una misura ben accettata dai detenuti, e che proseguirà a richiesta anche nella fase 2, quando i colloqui riprenderanno ma con misure rigide di prevenzione. Abbiamo chiesto, come Società Scientifica, lo screening – i tamponi! – a tutto il personale che aveva accesso alle aree detentive: sanitario, di polizia penitenziaria, del trattamento. Ma l’effetto è stato assolutamente difforme sul territorio.
Oggi si comincia a riaprire, ma senza la certezza di comportamenti sociali adeguati e con tutti i rischi conseguenti. Non possiamo quindi che ritenere ancora valido quanto abbiamo sin adesso proposto, anche per prepararci ad una eventuale ulteriore ondata di malattia, ma dobbiamo ripensare ai limiti del sistema di tutela della salute in carcere.
La frammentazione e diseguaglianza strutturale, nelle varie regioni e financo nelle singole aziende sanitarie, dell’organizzazione e della gestione del personale sanitario, da cui in maniera diretta l’approccio al sistema e, quindi, al detenuto ed al detenuto-paziente, è il primo vero problema, non risolto dalla normativa di transito e caleidoscopio di azioni nelle varie realtà del territorio.
L’esito è una realtà fragile, nella quale offrire sanità ad una coorte di popolazione “difficile” intrinsecamente anch’essa più fragile e le cui problematiche di patologia si evidenziano di maggiore difficoltà gestionale rispetto al mondo “fuori”, è sempre più complesso. Un mondo chiuso nel quale anche le patologie psichiatriche sono esplose e non trovano, né possono trovare, adeguate soluzioni interne. Ad una costruzione teorica complessa e condivisibile, anche per la salute mentale, non ha fatto seguito la realizzazione di una vera rete sul territorio, dentro e fuori le mura.
Allora approfittiamo di questa occasione per ripartire. Chiediamo di ridisegnare il sistema dell’assistenza sanitaria in carcere, del modello di erogazione delle prestazioni, della necessità di fare prevenzione e clinica adeguata ad un utente certamente particolare, cui la limitazione della libertà personale condiziona differente risposta sia alla malattia che a quanto le ruota intorno.
È una sanità diversa. Molti lo hanno negato, ma hanno sbagliato e continuano a sbagliare. In carcere le ideologie devono restare fuori. La limitazione della libertà – legata al mancato rispetto delle regole generali di convivenza sociale – è un fattore intrinsecamente complicante ogni forma di patologia. Chi lavora all’interno lo sa, ma devono saperlo anche gli altri.
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