Il sistema sanitario è stato messo davanti ad una prova molto impegnativa, inedita. Fino a qualche mese fa, la gestione della sanità era misurata essenzialmente sulla risposta in termini di prevenzione, diagnosi e cura, di patologie conosciute e che aveva portato alla programmazione di investimenti secondo un dimensionamento delle strutture e della spesa che seguiva […]
Il sistema sanitario è stato messo davanti ad una prova molto impegnativa, inedita. Fino a qualche mese fa, la gestione della sanità era misurata essenzialmente sulla risposta in termini di prevenzione, diagnosi e cura, di patologie conosciute e che aveva portato alla programmazione di investimenti secondo un dimensionamento delle strutture e della spesa che seguiva l’impatto di queste patologie conosciute sulla popolazione. Ogni regione ha sviluppato in tutti questi anni, legittimamente, modelli organizzativi e di servizio molto diversi, i quali, messi davanti alla prova grave e senza precedenti, hanno risposto in modo differente, anche per il diverso impatto della diffusione del virus che i territori hanno subito. Quindi l’impatto della pandemia va visto in due direzioni. La prima riguarda i modelli regionali che con evidenza hanno risposto in modo differente. La seconda è relativa al difficile coordinamento nazionale nel momento in cui l’emergenza è virale, cioè indifferente ai confini regionali, che ha mostrato i molti limiti dell’attuale ripartizione dei poteri.
Ora c’è la necessità di affrontare ancora l’emergenza, ma come sempre le risorse vanno impiegate anche con progettualità e rispetto alle prospettive di riorganizzazione del servizio, che è giusto progettare affinché altri eventi analoghi ci trovino pronti a gestirli in modo adeguato. Gli orientamenti sono essenzialmente due.
Innanzitutto la costruzione di un modello sanitario sul territorio al fine di garantire prossimità e domiciliarità: nel decreto-legge “Rilancio” c’è un corposo investimento sull’assistenza territoriale, perché questo è il modello che ha risposto meglio. Ovviamente far convergere modelli regionali così differenti, non sarà una azione di breve periodo, ma occorre iniziare da subito. Poi la seconda direzione va nel senso del potenziamento dei Covid hospital intendendo parti dedicate in connessione con strutture esistenti per rispondere allo spettro sempre più largo di organi che il virus sta colpendo.
Infine sulle risorse necessarie a sviluppare questa riorganizzazione del SSN, ritengo si possa fare un passo in avanti.
Io credo che stiamo ormai parlando solo dei soldi del Meccanismo Europeo di Stabilità, ma lo strumento non è più il MES. È già diventato un’altra cosa, perché ha tassi bassi, periodi di restituzione lunghi, nessun nesso con i Bilanci nazionali e quindi nessuna condizione sul sistema Paese, ed è vincolato ai soli investimenti nel campo sanitario. Basti pensare che i 37 Mld di € che spetterebbero all’Italia in un anno, nel caso ne facesse richiesta, sono una cifra superiore a quanto ha investito il nostro Paese in strutture sanitarie in 16 anni, ovviamente andando a debito attraverso i buoni postali cioè i titoli che Cassa Depositi e Prestiti ha utilizzato per finanziare questi investimenti i quali sono stati distribuiti con programmi regionali su tutto il territorio nazionale. Non accedere a questa opportunità credo sarebbe perdere una occasione storica per accelerare la convergenza dei Sistemi sanitari regionali nel senso delle correzioni che questa emergenza ci ha evidenziato.
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