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Cellule staminali estratte attraverso un processo di liposuzione in soggetti in buona salute, poi trattate e iniettate in pazienti affetti da malattia di Crohn. È questa una delle terapie più innovative utilizzate per il trattamento di questa malattia quando si sviluppa nel tratto finale dell’intestino, quello perianale. A spiegarne l’efficacia è Luigi Sofo, direttore dell’Unità […]
Cellule staminali estratte attraverso un processo di liposuzione in soggetti in buona salute, poi trattate e iniettate in pazienti affetti da malattia di Crohn. È questa una delle terapie più innovative utilizzate per il trattamento di questa malattia quando si sviluppa nel tratto finale dell’intestino, quello perianale. A spiegarne l’efficacia è Luigi Sofo, direttore dell’Unità Operativa Complessa di Chirurgia Addominale del policlinico Gemelli IRCCS di Roma e chirurgo esperto nel trattamento di malattie infiammatorie croniche dell’intestino. «La malattia di Crohn del tratto perianale – dice Sofo – altera molto la qualità della vita di chi ne è affetto e interessa circa un quinto dei pazienti. Ma grazie a questo innovativo trattamento con le cellule staminali la probabilità di guarigione può superare il 50%».
Più in generale, la malattia di Crohn, assieme alla Rettocolite Ulcerosa, rientra tra le cosiddette malattie infiammatorie croniche intestinali (MICI), patologie che interessano una fetta sempre più larga di popolazione, spesso giovane. In Italia ne soffrono circa 200-250 mila persone, in Europa circa 2 milioni.
«Dolori addominali, diarrea anche sanguinolenta, malassorbimento fino a complicanze settiche sono tra i principali sintomi che, spesso – sottolinea Sofo -, accompagnano i pazienti per gran parte della loro vita. Non di rado, nelle varie fasi di riacutizzazione, queste malattie sono invalidanti e compromettono pesantemente la qualità di vita sociale, familiare e lavorativa dei soggetti più giovani».
«Il primo approccio di trattamento è medico, affidato al gastroenterologo – spiega il chirurgo -. È necessario che lo specialista abbia acquisito una buona conoscenza della malattia, poiché dai farmaci utilizzati possono scaturire diversi effetti collaterali. Per questo, il gastroenterologo deve essere in grado di individuare il medicinale più tollerato dal paziente, modulando di volta in volta la terapia».
Tuttavia, il solo trattamento medico non è sufficiente, è sempre necessario un approccio multidisciplinare, in quanto sia la malattia di Crohn che la rettocolite ulcerosa possono necessitare di uno o più interventi chirurgici. «È la normale evoluzione di queste patologie a renderlo necessario – puntualizza Sofo -. La colite ulcerosa può presentare un quadro di acuzie non più controllabile con farmaci o, in pazienti che hanno la malattia per lungo tempo, può virare verso la cancerizzazione della mucosa, ossia di quel rivestimento presente all’interno dell’intestino. Per il Crohn, invece, le complicanze possono variare dalle stenosi, delle vere e proprie occlusioni, fino agli ascessi o alle fistole. Il chirurgo deve essere in grado di coniugare efficacia dell’intervento e conservazione dell’organo. E per raggiungere questi obiettivi sono due i fattori fondamentali: programmare l’intervento al momento giusto della malattia ed effettuarlo nel modo più adeguato alle condizioni del paziente».
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Negli ultimi decenni si sono sviluppate le tecniche di chirurgia cosiddetta mininvasiva che, dal punto di vista pratico, si traducono nella capacità di operare con il minor trauma chirurgico possibile per il paziente. «Utilizzando la tecnica della laparoscopia è possibile intervenire effettuando solo dei piccoli buchi e facendosi guidare dall’utilizzo di una telecamera – commenta il chirurgo -. Disponiamo di sistemi ad altissima definizione, in ultra-HD, che permettono di intervenire osservando il campo operatorio su uno schermo di 60-65 pollici. Che non significa solo avere la possibilità di riuscire ad operare dall’esterno, ma anche avere un’immagine perfettamente ingrandita nel minimo dettaglio. L’intervento sarà così non solo più preciso ma soprattutto – conclude Sofo – meno traumatico per chi lo subisce».
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