Ogni anno in Italia si tolgono la vita circa 4mila persone. Un numero che deve far riflettere se consideriamo che ogni dieci anni scompare, di fatto, una città di 40mila abitanti. È impossibile, però, avere al momento un numero aggiornato. L’ultimo Annuario Statistico dell’Istat, infatti, contiene dati relativi al 2016, quando sono stati registrati 3.870 […]
Ogni anno in Italia si tolgono la vita circa 4mila persone. Un numero che deve far riflettere se consideriamo che ogni dieci anni scompare, di fatto, una città di 40mila abitanti. È impossibile, però, avere al momento un numero aggiornato. L’ultimo Annuario Statistico dell’Istat, infatti, contiene dati relativi al 2016, quando sono stati registrati 3.870 suicidi.
Una carenza di statistiche aggiornate che nel 2019, in occasione della Giornata Mondiale della Prevenzione del Suicidio (che si celebra ogni anno il 10 settembre), ha spinto anche l’Istituto Superiore di Sanità a sottolineare l’esigenza di creare un organo che monitori questo fenomeno, annunciando l’attivazione dell’Osservatorio epidemiologico sui suicidi e sui tentativi di suicidio (Oestes). All’annuncio, però e purtroppo, non è ancora seguito alcun atto concreto.
Questo vulnus appare, oggi più che mai, una vera e propria emergenza. Per diverse ragioni. Innanzitutto, come sottolineato recentemente anche da Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, «l’impatto della pandemia sulla salute mentale delle persone è già ora estremamente preoccupante». Inoltre, quello dei suicidi rappresenta la punta di un iceberg di un fenomeno ancora più complesso, in cui sono proprio i disturbi psicopatologici – specie quelli connessi al PTSD, disturbo da stress post-traumatico – a rischiare un incremento in una fase emergenziale e post-emergenziale come quella che abbiamo vissuto e stiamo vivendo.
Non avere dati aggiornati e ufficiali non può permettere né a chi studia il cervello, né a chi è a capo delle attività di prevenzione sulla salute, né alle stesse istituzioni di capire cosa stia accadendo riguardo lo “stato di salute mentale” della nostra società civile. Va da sé che non esiste in queste condizioni alcuna possibilità di intervenire.
Proprio per questi motivi, per via della mancanza assoluta di statistiche aggiornate, la Fondazione BRF – Istituto per la Ricerca in Psichiatria e Neuroscienze ha istituito nel corso della pandemia un Osservatorio Suicidi Covid-19, monitorando gli atti suicidari in base alle notizie di cronaca riportate dalla stampa nazionale. I numeri raccolti non hanno, ovviamente, valore scientifico, ma solo un valore indicativo perché verosimilmente parziali. Ciononostante sono ugualmente preoccupanti e, per questo, da monitorare quotidianamente. Da inizio marzo ad oggi abbiamo contato 49 suicidi e 30 tentativi di suicidio direttamente riconducibili all’emergenza coronavirus (sia nella sua dimensione sanitaria che socio-economica); però e per le ragioni qui sopra precisate potrebbero essere molti di più.
Il rischio è avvalorato dai dati relativi a passate emergenze che hanno investito il mondo occidentale. Il caso più eclatante è quello della crisi economica scoppiata nel 2008. In Grecia è stato realizzato uno studio dal quale è emerso un aumento del 40% dei suicidi nella prima metà del 2011 rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Le ragioni principali dei pensieri suicidari sono state le difficoltà finanziarie e l’incapacità di ripagare alti livelli di debito personale.
Per quanto riguarda l’Italia, uno studio basato su dati relativi al periodo 2000-2010, ha stimato per il nostro Paese 290 suicidi e tentativi di suicidio per motivazioni economiche dovuti alla recessione. Non solo: tra il 2007 e il 2010, il numero di suicidi è cresciuto del 34% tra i disoccupati, del 19% tra gli occupati e del 13% tra le persone ritirate dal lavoro. Stesse proporzioni si riscontrano ovviamente anche in relazione ai disturbi mentali. In uno studio scientifico condotto in Spagna è emerso che, rispetto al periodo pre-crisi del 2006, l’indagine effettuata nel 2010 ha rivelato aumenti sostanziali e significativi della percentuale di pazienti con disturbi d’umore: 19,4% per quanto riguarda la depressione maggiore, l’8,4% per quanto riguarda il disturbo d’ansia generalizzato, il 7,3% per quanto riguarda i disturbi somatoformi (disturbi psichici caratterizzati dalla presenza di sintomi fisici che inducono a pensare a malattie di natura somatica). Questi sono solo una parte degli studi osservati dalla Fondazione che ha analizzato anche gli effetti dopo la strage di Fukushima, le epidemie Sars e Mers e l’attacco alle Torri Gemelli dell’11 settembre. E da cui emerge sempre lo stesso quadro: un incremento di disturbi nell’area della salute mentale (e spesso degli atti suicidari) all’indomani di ogni emergenza.
LEGGI ANCHE: DEPRESSIONE E COVID, FONDAZIONE ONDA LANCIA L’ALLARME: «PIU’ DI 200 MILA NUOVI CASI A CAUSA DELLA CRISI ECONOMICA»
A seguito della denuncia della Fondazione è stata presentata un’interrogazione parlamentare dalla deputata Stefania Mammì, rivolta al presidente del Consiglio e al ministro della Salute, per sapere «se sia il caso di istituire un organismo (ad oggi inesistente) che si occupi, nelle emergenze di diversa natura, quindi al di là dell’emergenza Covid-19, di tutte quelle categorie di persone a rischio di suicidio, con scopi di prevenzione, assistenza e formazione del personale sanitario dedicato».
In questo ambito un disegno di legge è già stato depositato in Parlamento ed è relativo, per l’appunto, a «Disposizioni per la prevenzione del suicidio e degli atti di autolesionismo». A presentarlo è stato l’onorevole Cristian Romaniello (M5S) ed è stato firmato anche da deputati del Pd, di Italia Viva e di LeU.
Da mesi questo ddl è però fermo in commissione Affari Sociali in attesa di una calendarizzazione. Alla luce di quanto detto, e in relazione alla gravità di questa situazione in continua evoluzione, mi auguro che le istituzioni capiscano l’esigenza di creare un centro di studio e ricerca che possa monitorare il fenomeno dei suicidi e delle sue origini. Conoscere i dati relativi dopo tre anni, specie all’indomani di un’emergenza come quella che abbiamo vissuto, potrebbe rivelarsi del tutto inutile. Porre l’attenzione sul fenomeno e disporre di dati in tempo reale potrebbe permettere agli organi di governo ed alle istituzioni sanitarie di concepire provvedimenti concreti a beneficio di tutta la popolazione ma rivolti soprattutto alle fasce più vulnerabili della società civile.
ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER DI SANITÀ INFORMAZIONE PER RIMANERE SEMPRE AGGIORNATO