Il servizio di assistenza psicologica telefonica fornito dalla Asl Napoli 1 per intercettare il malessere della popolazione e degli operatori sanitari dopo il lockdown
Ansia generalizzata, slatentizzazione di disturbi psicosomatici, sindrome da burn-out. Che il lockdown non sia stato una passeggiata è cosa nota, meno note sono le modalità specifiche in cui due mesi di clausura forzata (e di lavoro in corsia nei reparti Covid per medici e operatori sanitari) hanno inciso sulla psiche degli italiani, e le strategie attuate dai sistemi sanitari regionali per dare una risposta di salute concreta a questi disagi.
La Asl Napoli 1 (Centro), ad esempio, ha messo a punto un servizio di assistenza psicologica telefonica rivolta alla cittadinanza e agli operatori sanitari. Il servizio, che ad oggi è ancora attivo ma che ovviamente ha avuto un vero e proprio boom durante il lockdown con richieste di aiuto anche al di fuori della provincia di Napoli, è fornito dall’UOC di Psicologia Clinica tramite linee telefoniche dedicate per garantire un supporto “senza filtri”, attraverso il contatto diretto con l’operatore.
«La presa in carico è direttamente telefonica – spiega ai nostri microfoni il dottor Claudio Zullo, direttore dell’UOC di Psicologia Clinica della Asl Napoli 1– e in alcuni casi la problematica è risolvibile, appunto, con un colloquio telefonico, mentre in altri casi di tipo emergenziale, alla telefonata si è deciso di dar seguito con un accesso presso le nostre strutture, ovviamente con tutte le cautele e le misure di prevenzione anti-Covid previste. Per i pazienti affetti da Covid e per i loro familiari abbiamo invece previsto un accesso mediato dai medici di Medicina Generale. Per quanto riguarda gli operatori sanitari – prosegue Zullo -abbiamo poi sviluppato due linee di attività: una, telefonica, con le stesse caratteristiche di quella offerta alla cittadinanza, e un’altra di tipo preventivo, in sinergia con le direzioni sanitarie dei presidi ospedalieri, prevedendo degli incontri ad hoc dove il personale poteva condividere, mentalizzare, scaricare lo stress, insomma una serie di strategie volte ad evitare il vero e proprio burn out».
Una proposta assistenziale che ha riscosso un grande successo e che potrà essere riproposta efficacemente in caso di futuri lockdown circoscritti, mini-zone rosse, e qualsiasi altra misura di emergenza che potrebbe avere un impatto psicologico sulla popolazione. Ma quali sono stati i sintomi più frequentemente accusati da chi si è rivolto a questo servizio? E quale fascia d’età o sesso ne ha maggiormente usufruito? «In maggioranza donne, nella fascia della terza età. I sintomi più frequenti hanno riguardato ansia generalizzata, innanzitutto, quindi con un bisogno di contenimento – rivela Zullo – ma anche problematiche psicopatologiche già presenti che a causa del lockdown si sono slatentizzate, soprattutto a livello di dinamiche familiari. Per non parlare di un gran numero di persone in stato di abbandono e solitudine, che avevano bisogno di un supporto di tipo amicale, una compagnia, il poter semplicemente parlare con qualcuno. Negli operatori sanitari invece – precisa Zullo – il disagio che abbiamo riscontrato con più frequenza è stato quello legato ai rapporti con la famiglia. Mi spiego meglio: il tipo di lavoro svolto in corsia e il dover poi rincasare con la paura costante di essere veicolo di contagio per i proprio cari, e quindi anche modificare necessariamente l’assetto organizzativo della propria routine familiare, ha comportato dei problemi. Veri e propri casi di burn-out ne abbiamo avuti pochi per fortuna – conclude Zullo – e gli sfoghi del personale sanitario li abbiamo intercettati nella fase iniziale, quando erano dovuti soprattutto alla difficoltà e alla paura di lavorare senza adeguati DPI, prima che la fornitura si stabilizzasse».
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