La rivista Nature fa il punto sulle procedure di clinical trial assistite da algoritmi. Caruso (AISDET): «Vedo rischi nell’uso dei fondi Recovery Plan»
Medicina e tecnologia, un binomio che è sempre più presente nei discorsi degli addetti ai lavori – e non solo. Con l’epidemia da coronavirus si sono imposti, oltre allo smart working per tanti lavoratori italiani, anche importanti novità nel mondo della sanità, come ad esempio la telemedicina. Uno dei prossimi capitoli dell’innovazione in questo settore è già presente ed è l’utilizzo delle tecnologie di intelligenza artificiale in sanità. Secondo l’autorevole Nature, «i recenti progressi tecnologici negli algoritmi di machine learning e di deep learning, e la loro applicazione nella risoluzione di questioni cliniche, stanno espandendo le possibilità per aumentare i risultati del sistema sanitario e ad oggi rappresentano una importante promessa nella trasformazione della ricerca clinica».
Sono già molti i trial, infatti, che vengono assistiti da algoritmi di intelligenza artificiale: la data-driven healthcare è nelle condizioni di permettere un salto di qualità, soprattutto se le basi dati da analizzare sono molto ampie e l’utilizzo di sistemi di automazione può così permettere un risultato puntuale e significativo. «La ricerca clinica», continua Nature, «è all’alba di una nuova fase dove l’innovazione ha un potenziale enorme per far avanzare i sistemi di cura. Ci sono, tuttavia», ed è il successivo punto da evidenziare, «rischi che devono essere anticipati e passi necessari per assicurare che le soluzioni basate sull’IA mettano al primo posto i bisogni dei pazienti e, così facendo, si guadagnino la fiducia degli utenti». Cosa sta succedendo, allora?
Massimo Caruso è il segretario generale di AISDET, l’Associazione Italiana di Sanità Digitale e Telemedicina; Sanità Informazione l’ha raggiunto al telefono: «Attualmente manca una regia sia pubblica che sanitaria riguardo l’utilizzo dell’intelligenza artificiale in sanità», ci spiega: «Si procede a macchia di leopardo e senza linee guida approvate, molto spesso è tutto lasciato nelle mani del comparto informatico che, avendo le competenze per capire su cosa sta operando, viene giudicato più efficiente. Ma è un errore». Si tratta, in effetti, proprio del rischio evidenziato da Nature che con la sua pubblicazione propone che si arrivi ad un consenso su di un protocollo con parametri specifici per l’utilizzo della AI nelle procedure sanitarie. «L’approccio per così dire informatico al dato», continua Caruso, «rischia di essere troppo tetragono e troppo decontestualizzato rispetto alla complessità del sistema sanitario. Le basi di dati in possesso delle amministrazioni sanitarie devono essere utilizzate con un obiettivo ed è necessario avere un pensiero digitale».
Due esempi: «Prendiamo la recente digitalizzazione delle ricette sanitarie. Ci sono molti presidi sanitari, molte Aziende Sanitarie che hanno scambiato la scannerizzazione della ricetta classica per una digitalizzazione; con l’arrivo della ricetta dematerializzata ora tutto questo lavoro si può prendere e buttare, è inservibile, anche perché da una scansione io non ho alcuna possibilità di ricavare un dato manipolabile. Pensiamo poi ai piani di telemedicina: le regioni hanno dato mandato alle aziende sanitarie di sviluppare i loro piani, ma molto spesso è come parlare nel deserto se le ASL non hanno in pancia le competenze necessarie ad interpretare questi nuovi linguaggi. Su questo, fra l’altro, io vedo un grosso rischio nell’utilizzo dei fondi del Recovery Plan europeo».
Il problema è, sostiene Caruso, che ad oggi il “motore dell’innovazione digitale” risiede nelle industrie, «che hanno ovviamente fondi e professionalità per promuoverlo – anche se alcuni progetti molto mediatizzati globalmente hanno dato poi risultati sinceramente inferiori alle aspettative; e marginalmente nel mondo universitario, certo non nel livello amministrativo e gestionale della sanità. Non esiste in Italia un’autorità di governo e coordinamento di questi processi, un passo avanti si è fatto con l’Agenzia per l’Italia Digitale AGID, ma le procedure sono ancora complesse e farraginose. Sarebbe invece necessario», continua, «reingegnerizzare completamente i sistemi. Io, responsabile ricerca, io direttore generale di una ASL, devo percepire quanto sia importante il flusso dati all’interno della struttura su cui lavoro e devo poter avere quei dati formattati in un certo modo e utilizzabili per il mio territorio. Servono più competenze nel settore pubblico, serve uno scatto di velocità nel rapporto fra amministrazioni dello stato e università, meno elefantiasi e più attitudine a comprendere che il digitale non è uno strumento, ma un ambiente in cui si costruiscono relazioni».
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