Tantissimi giovani si iscrivono a più Università per avere maggiori chance di sconfiggere il numero chiuso. Cosa significa, al giorno d’oggi, provare a diventare medico? Su Sanità Informazione una storia che ne racchiude migliaia
Più che di numero chiuso in Medicina si dovrebbe parlare di tanti numeri chiusi in Medicina. Non esiste soltanto la prova unificata a livello nazionale delle università statali. Esistono anche tante università private (più o meno conosciute, più o meno prestigiose) che, con modalità e tempistiche diverse, danno la possibilità a chi da grande vuole fare il medico di mettersi alla prova con un test di ingresso a risposta multipla.
I candidati che si iscrivono e partecipano alle prove delle università private sono, per forza di cose, molto meno numerosi delle decine e decine di migliaia che si candidano per un posto alle università pubbliche: i costi da affrontare, una volta entrati, sarebbero, nel primo caso, nettamente più alti. Ma c’è chi non si fa problemi ed è disposto anche a fare enormi sacrifici pur di realizzare il proprio sogno.
È il caso di Roberto (nome di fantasia), uno dei tanti ragazzi che ogni anno si preparano per una via crucis fatta di università pubbliche e private in cui provare ad entrare. Roberto era iscritto al primo anno di Giurisprudenza alla Sapienza di Roma. Padre avvocato, carriera già scritta. Una carriera che, forse, poteva andargli anche bene, ma di certo non era quel che desiderava veramente.
Ma quando è scoppiata la pandemia e suo padre è rimasto chiuso per due settimane in terapia intensiva, ha capito di aver completamente sbagliato strada. Quando l’avvocato è tornato a casa, debilitato ma fuori pericolo di vita, ha passato giorni, se non settimane, a spiegare con le lacrime agli occhi a sua moglie e ai suoi due figli quanto siano stati eroici i medici e gli infermieri che lo avevano curato e tirato per i capelli da una morte quasi certa. È stato lì che Roberto ha capito che non voleva fare più l’avvocato. Voleva fare il medico.
Si è preparato come poteva e ha preso parte al suo primo test d’ingresso: quello in lingua inglese alla Cattolica del 28 maggio. Per qualsiasi persona senza la preparazione necessaria sarebbe stato un tentativo improbo e, difatti, non passerà. Ci riproverà due mesi dopo, sempre alla Cattolica, ma questa volta in italiano. Così Roberto si è presentato in aula il 29 luglio. Era più tranquillo della volta precedente. Aveva avuto modo di studiare un po’ di più e di farsi un’idea del tipo di domande a cui avrebbe dovuto rispondere. E poi, fosse andata male anche lì, ci avrebbe riprovato solo tre giorni dopo, alle selezioni per il Campus Biomedico, sempre a Roma.
E così, il 31 luglio si è presentato in Via Portuense, all’ingresso nord della “Fiera di Roma”. Lì, tra i padiglioni adibiti appositamente per permettere lo svolgimento del test a tutti i candidati in maniera tale da osservare le regole di distanziamento, Roberto ha messo per la terza volta alla prova le sue capacità, invocando più volte un aiuto quanto mai necessario dalla dea fortuna.
Non passerà neanche lì. Ma lui, determinato come pochi e disposto a tutto per realizzare l’idea di vita che aveva maturato nei mesi precedenti, ha deciso di non partire per le vacanze per studiare e, con i soldi così risparmiati, si è iscritto al test del San Raffaele di Milano (al costo di 170 euro) e ha preso in affitto un piccolo appartamento su AirBnb.
Altro tentativo fallito, ma nulla era ancora perduto: il 3 settembre era la data unica dei test alle università statali. Giusto il tempo di tornare nella sua città che si è ritrovato alla Sapienza a tentare la sorte insieme ad altri tantissimi giovani come lui in tutta Italia. Non nutriva particolari aspettative: solo un candidato su cinque sarebbe entrato, e di certo lui era uno dei meno preparati nelle materie principali. Nella graduatoria che verrà pubblicata il 29 settembre il suo nome non ci sarà.
Nel frattempo, per aprirsi anche altre strade, ora che le possibilità di entrare in facoltà cominciavano seriamente a scarseggiare, ha partecipato al test delle professioni sanitarie, sempre alla Sapienza. Lui voleva fare il medico, non altro, ma prendere parte anche a questa prova gli sembrava un buon paracadute per non perdere inutilmente un anno nel caso in cui il numero chiuso l’avesse avuta vinta su di lui. Tanto valeva provare, e poi l’iscrizione costava solo 35 euro. Pensava ci fossero meno candidati, che avesse maggiori possibilità di entrare. Ma alla fine sono stati poco più di 77mila gli studenti in lizza per una delle 22 Professioni Sanitarie. Impresa quanto mai difficile, anche in quella occasione.
Cosa gli restava ora? Cercando su internet aveva trovato un annuncio dell’Università di Tirana “Nostra Signora del Buon Consiglio”. Al costo di 100 euro, il 30 settembre avrebbe potuto provare ad entrare in un’università straniera ma con i corsi, i professori e i libri in italiano e la possibilità di andare a studiare, dopo un anno in Albania, all’Università di Roma Tor Vergata, all’Università di Bari o alla Statale di Milano. Roberto ha deciso però di soprassedere e di prepararsi a quello che considerava l’ultima possibilità: il test all’Università Unicamillus.
Ora Roberto è in attesa di sapere cosa ne sarà del suo futuro e del suo sogno. Ma, come detto, di ragazzi come lui ce ne sono tanti. Entrare alla facoltà di Medicina, in Italia, è come partecipare ad una corsa ad ostacoli, ad una sorta di gioco dell’oca: si studia, si fanno esercitazioni, si frequentano scuole private per prepararsi al meglio, poi ci si iscrive a quante più università possibile per avere una seconda, terza o quarta possibilità nel caso in cui la prima non dovesse andare come previsto e sperato. Si compilano moduli, si fanno bonifici, si pensa a come affrontare le spese delle università più costose. Si viaggia, si fanno file interminabili, si attende con impazienza la consegna dei fogli con le domande, si fa il meglio possibile e poi si aspetta l’esito delle graduatorie. E se non va bene si ricomincia daccapo, magari in un’altra città, magari in un altro Paese. E così via, per un anno, per due anni, per tre anni di fila.
Il numero chiuso permette solo a pochissimi giovani di coronare il loro sogno. Quanti di questi sarebbero diventati buoni medici? Quanti di questi avrebbero meritato almeno un’occasione di essere valutati per le loro capacità e la loro voglia, e non per una risposta sbagliata. Perché c’è anche questo da considerare: ogni anno, in tutta Italia, migliaia di ragazzi non entrano alla facoltà di Medicina per aver sbagliato una sola, un’unica domanda di troppo. E il nostro Servizio sanitario quanti potenziali bravi medici ha perso per una sola, un’unica domanda sbagliata?
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