di Filippo Festini, Università degli Studi di Firenze
Negli ultimi giorni è salito all’attenzione dei media il tema della gestione dei casi di Covid nelle scuole. Le regole per la prevenzione dei contagi hanno cambiato sotto molti aspetti le vite dei bambini e delle loro famiglie. In particolare, la questione dei tamponi obbligatori sta destando molta apprensione tra le mamme ed anche incomprensioni tra di esse ed i pediatri. L’opinione che le misure di prevenzione dei contagi a scuola siano eccessivamente stringenti, che non tengano nel debito conto le particolarità dei bambini e che stiano provocando problemi logistico-organizzativi troppo grandi si è diffusa non solo tra i genitori ma anche tra i pediatri; infatti, sia la SIMPE che la SICuPP hanno già suggerito la necessità che le regole siano rivedute.
Gli obblighi relativi a tali misure di prevenzione (incluso l’obbligo del tampone ai bambini per il rientro a scuola) sono previsti nell’allegato 21 al DPCM 9/9/2020, recentemente prorogato col DPCM 13/10/2020. L’allegato 21 non è altro che il testo delle “Indicazioni operative per la gestione di casi e focolai di SARS-CoV-2 nelle scuole e nei servizi educativi dell’infanzia” prodotte da un Gruppo di lavoro costituito tra ISS, Ministero della Salute, MIUR, INAIL, Fondazione Kessler e le regioni Veneto e Lazio.
Quindi, un documento tecnico-scientifico che nasce per “fornire un supporto operativo” e “indicazioni pratiche” agli operatori, ossia per orientarli ed aiutarli nelle loro decisioni, è stato trasformato (inserendolo così com’era nel testo di una normativa statale) in una serie di prescrizioni obbligatorie e con valore legale, cioè in qualcosa che ha uno scopo molto diverso da quello originario.
Per una metamorfosi così impegnativa ci si deve attendere che il documento tecnico-scientifico divenuto legge sia metodologicamente solido e che sia fondato sulle migliori evidenze scientifiche disponibili. Lo stesso documento, infatti, si propone di far adottare agli operatori “modalità basate su evidenze e/o buone pratiche di sanità pubblica”. Mi ha sorpreso, quindi, non trovare una descrizione della metodologia seguita nella stesura del documento, né puntuali riferimenti bibliografici alle evidenze supportanti le diverse indicazioni fornite e alla loro “forza”; e non è chiaro se le diverse indicazioni fornite siano effettivamente fondate su evidenze o siano invece “opinioni di esperti”.
Tuttavia, l’aspetto a mio avviso più critico di questo documento è l’assenza, nel numeroso gruppo di lavoro che lo ha prodotto, di tutte quelle professionalità che si occupano della salute fisica e psichica dei bambini e che il documento stesso prevede come fruitori del documento. Infatti, tra i 36 autori del documento troviamo: 22 medici tra cui 9 specialisti in Igiene e Sanità Pubblica, 4 in Infettivologia, 3 in medicina Interna, 2 in statistica sanitaria, 2 in medicina del lavoro, uno in epidemiologia, uno in medicina legale, uno in oftalmologia, uno in gastroenterologia e uno senza specializzazioni; inoltre 2 infermieri, un biologo, 2 veterinari, uno statistico, 2 laureati in filosofia, un pedagogista, 3 economisti, un giurista, un giornalista, un dirigente scolastico, un esperto di demografia, due esperti di formazione a distanza e un esperto di programmazione sanitaria (nb: alcuni membri hanno più di una specializzazione o competenza). È possibile che questa lista non sia del tutto precisa ma certo è che nel gruppo non è presente alcun pediatra, alcun neuropsichiatra, alcun infermiere pediatrico, alcuno psicologo dell’età evolutiva.
Il primo e fondamentale requisito metodologico di qualsiasi documento tecnico-scientifico contenente raccomandazioni, indicazioni o protocolli operativi che in qualche modo incidano sulle attività sanitarie e cliniche, è la presenza, nel gruppo di lavoro incaricato di redigerlo, di tutte le professioni sanitarie interessate (oltre che, ove possibile, dei rappresentati dei pazienti). Lasciando da parte momentaneamente le esigenze della metodologia, è il buon senso a suggerire che solo i professionisti responsabili di un determinato ambito della pratica clinica possono conoscere l’impatto che una specifica raccomandazione (a maggior ragione se trasformata in obbligo normativo) è in grado di avere sia sui pazienti che sulla gestione in termini organizzativi e logistici sia, soprattutto, sulla attuabilità stessa della raccomandazione/obbligo.
A mio avviso, le criticità e le difficoltà che si stanno riscontrando l’applicazione delle “Indicazioni” recepite nell’allegato D confermano l’inopportunità della scelta di non coinvolgere nel gruppo di lavoro alcun professionista sanitario dell’ambito pediatrico.
Da un punto di vista meramente scientifico, l’assenza nel gruppo estensore di alcuni dei professionisti fondamentali nel contesto clinico oggetto delle raccomandazioni, solleva perplessità sulla sua validità scientifica e conseguentemente sulla sua applicabilità nella pratica clinica.
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