Richard Horton al Festival della Salute Globale: «Il Covid ha tirato fuori anche il meglio di noi medici»
«Chi avrebbe mai pensato che la nazione più potente del mondo potesse essere messa in ginocchio, letteralmente, dal coronavirus?». Inizia con queste parole l’appuntamento promosso nell’ambito del Festival della Salute Globale che ha visto Stefano Vella, docente di Public Health all’Università Cattolica, stimolare e intervistare Richard Horton, medico di base a Londra e direttore del prestigiosissimo Lancet, forse la più nota rivista di argomento medicale al mondo. Al centro dell’esposizione, ovviamente, la pandemia da coronavirus: «Il neo presidente eletto Biden dovrà prima di tutto occuparsi di questo, di gestire la pandemia, altrimenti secondo le proiezioni quasi 450 mila persone moriranno negli Stati Uniti entro marzo dell’anno prossimo e questa sarebbe una tragedia di dimensioni assolutamente immani. Non che il nostro continente sia messo meglio, anzi. Regno Unito e Italia sono messe veramente poco bene e per certi versi, con elementi diversi fra di loro, sono state le peggiori della classe».
Fa però notare Horton che, come spesso accade, le parole sono importanti: «Ridurre tutto al termine ‘pandemia’ rischia di essere fuorviante. I costi economici del Covid-19 saranno assolutamente incredibili e 100 milioni di persone secondo le stime si troveranno nella povertà più estrema a seguito dell’impatto della pandemia. Più continua ad andare avanti questa fase più questo numero continuerà ad aumentare. Non soltanto le persone si troveranno in povertà, ma ci saranno anche delle maggiori disuguaglianze. Questo virus infatti accentua e esaspera le disuguaglianze esistenti. Probabilmente è giusto dire che non abbiamo ancora preso atto della vera portata di questa pandemia perché cambierà tutti gli aspetti della nostra vita, della nostra società e della nostra cultura».
L’intervento di Horton si snoda intorno alle “lezioni che dobbiamo aver appreso dalla fase coronavirus”. Ad esempio, continua il responsabile del Lancet, «abbiamo imparato che le nostre società sono molto fragili, molto più di quanto si potesse pensare nel passato. Se andate in giro per le strade in città vedete di cosa è costruito il nostro tempo; di cemento, di ferro, di vetro. Eppure la nostra società è stata bloccata interamente da una cosa piccolissima, da un virus. Abbiamo poi scoperto chi siano, davvero, le persone più vulnerabili della nostra società: quelli che erano in prima linea nei nostri ospedali, nel sistema sanitario, nelle scuole, che guidano gli autobus, si occupano dei treni. Sono loro che si stanno facendo carico dell’impatto maggiore in termini di vite umane ed è solo grazie a loro se le società continuano ad andare avanti».
«Dobbiamo infatti ricordarci una cosa: questa non è una pandemia – aggiunge Horton -. Cosa voglio dire? Voglio dire che questa è la sintesi di due pandemie. C’è certamente un virus da una parte, ma abbiamo anche un virus che interagisce con un essere umano e questo essere umano ha una serie di vulnerabilità, come le malattie croniche, cardiovascolari, eccetera. L’epidemia del virus ha unito le forze con l’epidemia delle malattie croniche e la sintesi è la situazione in cui ci troviamo oggi mentre sullo sfondo c’è la disuguaglianza: le persone che sono più povere sono anche le più vulnerabili».
Passaggio importante è stato anche quello sull’analisi del comportamento delle istituzioni internazionali, in particolar modo l’Organizzazione Mondiale della Sanità. «Dopo la dichiarazione di emergenza di gennaio in realtà non è successo niente. Silenzio assoluto. Si è messo in allarme il mondo e poi 194 Stati hanno preso a gestire la pandemia. Sono tutti parte dell’OMS e ognuno ha fatto per conto suo. A me è parso incredibile. Il primo summit globale su Covid-19 in cui 194 Paesi si riuniscono per condividere le proprie esperienze e imparare le lezioni ci sarà solo nelle prossime settimane».
«Avremmo poi potuto fare molto meglio in termini di comunicazione. Una corretta comunicazione dovrebbe in questi casi essere sviluppata fin dall’inizio perché se si sbaglia la comunicazione, si distrugge quella che è la fiducia del pubblico. Basti pensare al trattamento che il presidente Trump ha riservato ad Anthony Fauci, senior scientist della Casa Bianca che tutti conoscono, un professionista ammirato a livello mondiale, conosciuto come uno dei più grandi esperto di HIV. Criticare pubblicamente una personalità del genere porta alla perdita della fiducia da parte del pubblico ed è molto difficile recuperare questa fiducia. Quindi non si riescono a convincere le persone a portare avanti determinati comportamenti come per esempio indossare le mascherine».
E ora, quali prospettive? «Il vaccino Pfizer è in lavorazione, dall’altra parte c’è il vaccino Sputnik. Ci sembra di essere in una nuova guerra fredda, come se la corsa al vaccino fosse la corsa alle armi. In realtà ne abbiamo 11 di vaccini che sono già agli ultimi stadi di test clinici, sono diversi nella loro composizione e questa è una cosa buona perché se una categoria di vaccini fallisce ne abbiamo altri che potrebbero funzionare. Non mancano i motivi di preoccupazione: il vaccino deve essere tenuto ad una temperatura di meno 70 gradi centigradi e quindi è instabile, il che rende molto difficile farlo arrivare nelle comunità che magari hanno difficoltà ad avere un congelatore che ha una temperatura di meno settanta. Sono comunque speranzoso e penso in realtà che avremo in ogni caso un vaccino perlomeno il prossimo anno. Quelli allo stadio di test sono vaccini potenti e molto efficaci nel distruggere il virus».
«Bisognerà parallelamente lavorare sulla fiducia nei vaccini; in alcuni Paesi stiamo parlando di almeno il 50% del pubblico che ha incominciato a farsi delle domande sulla sicurezza del vaccino ed è preoccupato. La lezione qui è che non dobbiamo abbandonare tutta la cura che mettiamo nella sicurezza per le autorizzazioni vaccinali. D’altro canto – prosegue Horton – bisogna dire che non c’è nessuno qui che abbia la pillola magica: il vaccino in un certo senso è semplicemente uno strumento molto importante che ci aiuterà a controllare il Covid-19, ma non sarà in grado di distruggerlo. Questo è qualcosa che bisogna dire e che è necessario che la gente la gente capisca».
«Voglio finire con una nota di ottimismo», ha spiegato il direttore del Lancet concludendo la sua relazione: «Io mi occupo della rivista da 25 anni e mai ho visto il tipo di unità, di collaborazione, lo spirito di corpo nell’ambito della comunità medica. Questa è veramente una fonte di grande positività. Ovviamente SARS-CoV-2 è una grande sfida per tutti noi, ma ha tirato fuori anche il meglio di molti di noi e di voi».
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