Viaggio in un hospice con Priscilla Landucci, medico di cure palliative alla Asl Roma 4, delegato di Cisl Medici Lazio
L’hospice è una struttura socio-sanitaria temporanea che accompagna alcuni pazienti, specialmente quelli oncologici, alla fine della vita. Persone affette da malattie inguaribili possono essere assistite riguardo al controllo del dolore, per gestire la sofferenza fisica ed eventuali complicazioni, e possono ricevere sostegno psicologico per sé e per i familiari. Qui vengono rispettati i desideri del paziente che viene aiutato ad avere la migliore qualità di vita possibile. Tuttavia, è da chiarire che l’azione che si svolge in un hospice si concentra sul periodo in cui la cura della malattia non è più ritenuta possibile e non costituisce più l’obiettivo primario.
Indagheremo un po’ questo luogo con il supporto della dottoressa Priscilla Landucci, dirigente medico della Asl Roma 4, medico di cure palliative, delegato di Cisl Medici Lazio, che si dice innamorata di questo lavoro. Lavora nell’hospice della sua Asl, dove vengono ricoverati 10 pazienti terminali alla volta.
Per molti pazienti oncologici non in fin di vita si utilizzano le simultaneous care con pazienti non propriamente terminali ma che hanno dei bisogni speciali di cure palliative. Le cure simultanee permettono al paziente di rimanere in terapia anche quando ci sono effetti collaterali difficili da gestire dal medico di famiglia, perché magari in questo periodo non possono andare in ospedale in quanto troppo fragili.
«La volontà delle Società sia di oncologia che di cure palliative è quella di farla diventare una realtà sempre più presente, anche se attualmente non ci sono regolamentazioni precise, però ci sono molti progetti a livello regionale, nazionale ed internazionale, per cui si sta evolvendo questa idea di utilizzare le cure palliative non solo nella terminalità stretta ma in altri momenti delle malattie croniche, soprattutto oncologiche, perché i margini sono più facili. Nelle altre patologie croniche è più difficile stabilire i margini, quando non ci sono più chemioterapie da fare, non ci sono terapie eziologiche è più facile stabilire la terminalità, mentre nelle patologie croniche è più difficile, perché ci sono insufficienze multiorgano, comorbidità. Quindi capire che un paziente sta diventando terminale è un processo più complesso che interessa molti medici che devono lavorare in modo collegiale per decidere che quel paziente è terminale».
«Noi, specialmente i malati oncologici, li ricoveriamo in residenziale o in domiciliare, poiché abbiamo una equipe medica dedicata, specie per i pazienti oncologici con complicanze acute che possono essere gestite anche a casa a livello infermieristico con monitoraggio medico intensivo. Per nostra caratteristica abbiamo una visita medica almeno alla settimana e la reperibilità h24 del medico. Per la visita a domicilio, il paziente può chiamare quando vuole e c’è pronta una equipe domiciliare. Quindi stiamo lavorando con pazienti non strettamente terminali, per impedire che ci siano accessi al Pronto Soccorso. Lo abbiamo fatto anche per pazienti non oncologici. Abbiamo seguito pazienti con il Parkinson, noi abbiamo la fisioterapia, la neurologa e siamo riusciti a gestirli in cura palliativa anche se i pazienti non erano terminali».
«Soprattutto per lenire le sofferenze. Le complicazioni se parliamo di terminali sono la regola. Però noi le possiamo gestire senza esami o trattamenti e procedure di tipo invasivo. Si ha quindi un approccio che va contro l’accanimento terapeutico. Questo però riguarda i pazienti terminali. Nelle simultaneous care i pazienti li gestiamo come qualsiasi altro medico ma abbiamo un’attenzione sulla persona a 360 gradi. Ecco perché interveniamo sia per quanto riguarda l’aspetto medico che psicologico e sociale. Ci prendiamo cura anche della famiglia del malato. Ai pazienti, finché non è arrivata la fine, si garantisce la migliore qualità della vita possibile e il sostegno psicologico per sé e per la sua famiglia. Anche spirituale. Noi abbiamo una equipe professionale che si occupa del malato sotto tutti gli aspetti».
«Che qualsiasi religione pratichi il malato o curatore spirituale di cui ha bisogno, noi cerchiamo di aiutarlo per portare avanti i riti del suo credo religioso o lo sosteniamo emotivamente, ci siamo anche per parlare».
«La paura è un sintomo abbastanza presente che quasi tutti nel percorso di cure palliative hanno, sia da parte del malato che deve anticipare il suo lutto e deve occuparsene e sia da parte dei familiari».
«Una paziente tempo fa mi disse che era seguita da un santone indù. Non potevamo farlo venire da lei a causa del Covid, ma alla fine della vita ha avuto una sorta di richiamo verso la religione cattolica. Sono momenti di grande intimità che cerchiamo di accogliere perché possa vivere questo momento nella maniera più serena possibile».
«Allo stesso modo, siamo vicini e cerchiamo di risolvere loro i problemi che si possono presentare, dalle difficoltà pratiche a quelle relazionali. La famiglia parla con tutta l’equipe, non la facciamo sentire sola. In questo periodo siamo stati in difficoltà perché ai familiari è stato vietato l’ingresso nelle strutture. Ma con un po’ di buon senso abbiamo cercato di gestire come meglio si poteva il contatto con chi doveva essere al capezzale. Li abbiamo istruiti, seguiti, li abbiamo fatti stare fuori la finestra per salutare il parente o l’amico malato. Le videochiamate sono fondamentali per dare un sostegno ma sempre seguendo le linee guida della Società di cure palliative che ci ha imposto dei diktat su come gestire anche le telefonate e le videochiamate».
Una delle cose più impressionanti dell’infezione da Covid è la solitudine fino alla fine. Non si possono abbracciare i propri cari e questo è lo strappo più forte, il colpo di grazia di questa malattia.
«Un dolore immenso che abbiamo provato in prima persona. Anche noi durante la prima ondata abbiamo avuto dei casi di Covid e abbiamo dovuto gestire questa enorme difficoltà in situazioni in cui si ammalavano pure i familiari, persino le videochiamate sono state difficili. Lo strazio più grande per queste persone è stato non poter seppellire i propri familiari. Chi sa che il suo familiare è terminale è preparato in qualche modo per i riti finali, ma durante il lockdown non è stato consentito niente. Quindi ci rimane il ricordo di queste persone che abbiamo accompagnato e a cui non abbiamo potuto offrire quanto di solito facciamo».
«La bellezza di questo lavoro è l’opportunità di poterci essere quando gli altri in un certo senso se ne vanno. Quando non c’è più nulla da fare si ha l’opportunità di fare ancora qualcosa e quindi di dare senso alla vita finché c’è, per tutelarla fino alla fine. Nessuno ci crede più ma c’è ancora qualcuno che ci crede. Questa è la sensazione che hanno quasi tutti i familiari, di come noi restituiamo la vita a chi ha un mese o due e che può continuare a fare in un certo senso la vita che faceva. Non c’è molto ma quel poco ha molto senso. Ricordo un direttore d’orchestra che se ne è andato via da qualche mese, ma che durante la scorsa estate con le cure palliative ha fatto i suoi concerti all’aperto, aveva la sua musica».
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