Lavoro e Professioni 24 Novembre 2020 17:54

Fondazione Don Gnocchi, la testimonianza controcorrente di un dipendente: «Esempio di buona sanità»

Antonio Spinelli, da 33 anni professionista nel sociale, racconta i momenti più difficili della pandemia

di Federica Bosco

«L’emergenza Covid mi ha arricchito molto, mi ha cambiato. Mi sono sentito coinvolto in una situazione talmente drammatica che ognuno di noi si è adoperato per rendere più serena la vita dei colleghi e dei pazienti, in un contesto quasi surreale, dove è venuta completamente a mancare la socialità». Antonio Spinelli è un operatore sociosanitario dell’Istituto Don Gnocchi di Milano. Da trentatré anni è professionista del mondo della disabilità, e nelle due fasi della pandemia ha vissuto a stretto contatto con i ragazzi disabili della struttura. Adesso ha voglia di parlare per raccontare quanto il maledetto virus abbia distrutto, ma al tempo stesso costruito nell’animo umano.

«UN ESEMPIO DI BUONA SANITÀ»

Entriamo virtualmente in una delle più grandi strutture sociosanitarie di Milano, nell’ala dedicata ai ragazzi con disabilità. Finita al centro dello scandalo delle RSA lombarde in uno dei 22 fascicoli che riguardano strutture indagate per epidemia e omicidio colposo, la Fondazione Don Gnocchi sembra vivere tutt’altra storia nella sezione dedicata ai ragazzi disabili di cui Antonio Spinelli fa parte. Una realtà che ha attraversato e superato la prima ondata con alcuni ragazzi e operatori sanitari contagiati e ora sta vivendo questa seconda fase della pandemia con la consapevolezza di avere le risorse per fronteggiare il virus.

«Molto si è detto e scritto sulla gestione della pandemia nelle strutture sociosanitarie non sempre efficiente, invece io voglio portare una testimonianza di buona sanità – racconta Antonio – perché dopo i primi giorni di difficoltà oggettiva per un virus che non conoscevamo, tutto è stato organizzato nel migliore dei modi, con tamponi ripetuti al personale e ai pazienti, suddivisione dei reparti tra Covid e non e grande solidarietà tra i dipendenti».

«SIAMO COME UNA FAMIGLIA»

Oggi come ieri, novembre come a marzo, questo professionista di 56 anni impegnato nel mondo dei disabili a 360 gradi sia nell’attività lavorativa che nel tempo libero e nello sport (è stato Presidente della Federazione Italiana Wheelchair Hockey, oggi Fipps), vive il suo ruolo con grande partecipazione. «In questi giorni di emergenza Covid noi siamo l’unico ponte con l’esterno per i nostri ragazzi disabili, perché possono dialogare con i familiari solo attraverso il telefono o le videoconferenze che organizziamo con i parenti a casa – racconta –. Eppure è come se questo nemico invisibile che ha costretto tutti all’isolamento, avesse cementato il rapporto tra noi colleghi. Si è rafforzata la stima e la complicità, tutti uniti nell’affrontare l’emergenza. Anche con i dirigenti non esiste più distacco, si è passati dal lei al tu anche con il direttore senza neppure rendersene conto. Un clima familiare e amichevole che ha coinvolto tutti, anche gli ultimi arrivati. Abbiamo dato l’impressione, oggi diventata certezza, che i ragazzi possano contare su una famiglia».

Ma l’arrivo della seconda ondata ha fatto comunque paura: «Quando si sono manifestati i primi casi ad ottobre ho temuto di ricadere nel vortice della prima ondata, invece dopo i quattro contagi la situazione si è stabilizzata. Ad ammalarsi, tra l’altro, sono stati alcuni soggetti già investiti dal virus nella prima ondata, ma senza gravi conseguenze».

IL RICORDO DELLA PRIMA ONDATA

Una gestione più serena della pandemia sembra caratterizzare il vissuto del Don Gnocchi nella seconda ondata, eppure nella mente di Antonio ancora scorrono le immagini dei primi concitati giorni di marzo, quando, senza preavviso, il Covid è entrato nella struttura portando con sé paura e angoscia.

«Ricordo perfettamente quel 10 marzo – dice Antonio -. Quella mattina, intorno alle 11.00, piombarono in reparto dottori e infermieri tutti bardati con camici, guanti, mascherine e non so quale altro oggetto di protezione. Un nostro ragazzo veniva trasportato in ospedale perché risultato positivo al virus. Da giorni in Italia si era diffuso il coronavirus, ma mai avremmo immaginato che quel “male” improvviso ci invadesse così rapidamente da coglierci impreparati. Anche la Fondazione Don Gnocchi, seppur all’avanguardia in questo settore, è stata sorpresa da un evento di simile portata».

«Personalmente – racconta – ho vissuto sin dal suo nascere il “problema” grazie alla fortuna di essere negativo ai tamponi effettuati. Ho visto e posso testimoniare l’impegno, la “discesa in campo” di tutti i vertici del centro Santa Maria Nascente, ogni giorno, in ogni momento. Non ci hanno mai lasciato soli. Momenti di confronto ed aggiornamento quasi quotidiani. Attenzione e cura della nostra persona con prevenzioni ed accortezze necessarie». Una collaborazione che è cresciuta con il passare dei giorni e che si è fatta più serrata nel momento in cui altri operatori sanitari sono risultati positivi al tampone.

Ma alle parole di stima di Antonio, che per sua stessa ammissione ha affrontato anche turni di 16 ore senza mai lamentarsi, fa da contraltare la denuncia di alcuni dipendenti di una cooperativa che fornisce servizi alla Fondazione Don Gnocchi. Una posizione lontana da quella di Antonio, che ha ribadito a più riprese la sua vicinanza alla direzione. «In questi mesi ho imparato come, a volte, sia sufficiente cogliere lo sguardo di chi ti sta accanto e sta con te condividendo un percorso non solo lavorativo ma anche di amicizia. Come a volte sia sufficiente incrociare lo sguardo di un tuo ragazzo che, seppur senza voce, è lì a dirti tutto il suo grazie perché sei con lui, non lo hai lasciato solo».

«Il momento di emergenza che abbiamo vissuto è stato un’occasione che ha cambiato i nostri rapporti, il modo di lavorare. Ogni giorno entro al lavoro più “attento”, non solo alle misure sanitarie, ma a quello che c’è, ai nostri ragazzi, alle loro domande ed al loro bisogno, innanzitutto, di conforto. A volte è difficile, quasi impossibile, perché veniamo sopraffatti dalle nostre fragilità. Non siamo gente che si muove per eroismo, ma per il desiderio di condividere, anche in una situazione come questa, quello che abbiamo ricevuto. Siamo stati e siamo un gruppo che lavora da “squadra”, non da singolo. Rifarei tutto ciò che mi sono sentito di fare sino ad oggi, pronto ed orgoglioso di essere al posto giusto e nel momento giusto».

 

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