Dati in miglioramento e speranze dalla ricerca, ma ancora troppe diagnosi sono tardive. Tutti i numeri
Buone nuove, complessivamente, per la lotta contro l’AIDS/HIV in Italia e in Europa; ma anche tinte fosche e molto ancora da migliorare e risolvere. Arriva in un momento in cui di virus si parla tanto, per motivi diversi da quelli connessi al fiocco rosso, la data del 1 dicembre 2020, nuovo appuntamento con la Giornata mondiale contro l’AIDS. L’Istituto Superiore di Sanità in un comunicato stampa diffuso a pochi giorni dalla ricorrenza sottolineava che, sebbene dal 2012 le infezioni da HIV siano progressivamente calate, i numeri continuano a raccontare una realtà meritevole di attenzione e di allarmi.
Ad esempio le maggioranza di nuove infezioni da HIV è nella fascia 25-29 anni, mentre, continua ISS, «nel 2019 per la prima volta la quota di nuove diagnosi HIV riferibili a maschi che fanno sesso con maschi (MSM) ha raggiunto quella attribuibile a rapporti eterosessuali (42%), che invece è stata da sempre la modalità più frequente».
Allarmante è poi constatare che «il 60% delle persone diagnosticate con infezione da HIV nel 2019 erano già in fase avanzata di malattia e ignoravano di essere HIV positive già da molto tempo».
Anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha pubblicato i dati più aggiornati in suo possesso: ci sono oggi nel pianeta quasi 40 milioni di persone che vivono con infezione da HIV e, a causa di disfunzioni nei servizi HIV, oltre 690 mila persone sono morte «per cause collegabili al virus» e circa 1,7 milioni di persone sono state infettate.
Vi sono fortunatamente molte notizie positive: nel 2019 il 69% degli adulti e il 53% dei bambini HIV-positivi hanno visto il beneficio di una terapia antiretrovirale gratuita e a vita. La grande maggioranza delle donne incinte e con neonati in allattamento al seno hanno ricevuto terapie antiretrovirali, il che non solo va a proteggere la salute delle donne stesse, ma sa anche prevenire la trasmissione dell’HIV verso i neonati.
Colpisce il contributo europeo, soprattutto di alcune regioni, alla diffusione del virus. La divisione europea dell’OMS insieme al Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie afferma che «il numero di persone che vive con HIV non diagnosticato è in aumento nella regione di pertinenza dell’OMS Europa. Circa 136 mila persone hanno avuto una nuova diagnosi nel 2019, di cui circa il 20% nell’Unione Europea e il restante 80% nelle regioni dell’Est Europa».
Ciò dimostra, continuano i numeri allo studio, che «ci sono più persone divenute infette all’HIV nell’ultimo decennio rispetto a quanti hanno ricevuto una diagnosi, indicando che il numero delle persone che vive senza diagnosi è in crescita nella regione». Quello degli asintomatici è ovviamente un problema, come abbiamo ormai imparato a conoscere nelle lunghe giornate del coronavirus, perché si tratta di soggetti «che non sanno di avere HIV e non si curano».
La Società di malattie infettive e tropicali in una nota fa presente che «l’HIV oggi si può controllare, garantendo al paziente una qualità di vita molto simile al resto della popolazione, e si può ridurre la viremia fino ad azzerarne il rischio contagio».
Vero è che i fronti aperti rimangono tanti, ma anche la ricerca medica ha in effetti fatto il suo lavoro: «Gli studi HPTN83 e HTPN84 sono tra i più rilevanti dell’ultimo periodo – ha sottolineato per la SIMIT la professoressa Antonella Castagna, primario di malattie infettive all’Ospedale San Raffaele di Milano –. L’introduzione di un farmaco long acting somministrato per via intramuscolare ogni 8 settimane ha portato a una significativa riduzione delle nuove infezioni di HIV, sia nelle donne che nei maschi che fanno sesso con maschi: questa è una delle acquisizioni più importati di questi ultimi mesi. Si sta muovendo anche la strada dei vaccini, ma resta molto complessa, per diverse ragioni tra cui la variabilità del virus e la mancanza di modelli utili nella dimostrazione dell’efficacia».
Qualche segno di vita sul fronte dei vaccini in effetti pare esserci e arriva dagli Stati Uniti; alcuni giorni fa gli scienziati dello Scripps Research Center di La Jolla in California hanno pubblicato alcune risultanze di un esperimento basato sulla riprogrammazione dei linfociti B estratti dallo stesso malato. Il nuovo studio pubblicato su Nature e per ora testato su cavie di laboratorio «mostra che questi linfociti B, dopo essere stati reintrodotti nel corpo, possono moltiplicarsi in risposta a una vaccinazione e maturano in celle di memoria e di plasma che possono produrre alti livelli di anticorpi protettivi per lungo tempo».
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