Lavoro e Professioni 4 Dicembre 2020 08:19

Covid-19, il racconto di un’anestesista: «Ecco cosa significa lavorare in prima linea»

Gli anestesisti rianimatori, quei medici che oltre a stare accanto ai chirurghi in sala operatoria per l’anestesia, gestiscono i pazienti in rianimazione. Sono fra quegli specialisti che rischiano di più la vita in questo periodo e i più esposti al burnout ma anche alle denunce. Sempre in primissima linea poiché intubano ed intervengono in ogni […]

di Vanessa Seffer, Uff. stampa Cisl Medici Lazio
Covid-19, il racconto di un’anestesista: «Ecco cosa significa lavorare in prima linea»

Gli anestesisti rianimatori, quei medici che oltre a stare accanto ai chirurghi in sala operatoria per l’anestesia, gestiscono i pazienti in rianimazione. Sono fra quegli specialisti che rischiano di più la vita in questo periodo e i più esposti al burnout ma anche alle denunce. Sempre in primissima linea poiché intubano ed intervengono in ogni fare della emergenza-urgenza per evitare il peggio. L’Italia, che è stata impreparata durante la prima ondata, in questa seconda fase sembra aver fatto meglio. Ma i numeri dei contagiati e le vittime fra i medici sono ancora spaventosamente alti, e non possono certo essere loro i parafulmini delle inefficienze politiche e istituzionali.

Incontriamo la dottoressa Sany Rosseto, anestesista rianimatore che lavora presso l’Ospedale di Tivoli, nella Asl Roma 5, e delegato sindacale territoriale di Cisl Medici Lazio.

Dottoressa, voi entrate nella tana del mostro. Come vi siete destreggiati fino ad oggi?

«Ci siamo ingegnati per poter fare del nostro meglio, per proteggerci e proteggere il malato. Abbiamo fatto delle proposte per delle coperture ad hoc. Inizialmente mettevamo delle plastiche, non sapevamo a cosa andavamo incontro, tutto ciò che si sapeva era molto discutibile. Adesso, nella seconda ondata, siamo arrivati più preparati. Sappiamo come proteggerci meglio e come proteggere il malato, anche se poi basta un attimo per finire contagiati. E dire che come Cisl Medici non abbiamo mai abbassato la guardia sulla richiesta di una ottimale tutela dei lavoratori e sulle forniture dei DPI che mesi fa scarseggiavano. L’azione della Cisl Medici è nota, tracciata e basta andare sulla nostra pagina Facebook del Lazio per leggere come dal punto di vista sindacale non siamo mai stati inerti fin dall’inizio, anche quando qualcuno riteneva potesse essere appena qualcosa in più di una influenzetta».

A vestirvi e svestirvi delle tute, ve l’hanno insegnato con dei corsi appropriati oppure avete imparato da soli?

«L’azienda ci ha formato. I primi tempi, prima che l’azienda si organizzasse per la formazione, ci siamo dovuti arrangiare. Dopo abbiamo partecipato a questi corsi per la vestizione e la svestizione, poiché non eravamo abituati ad un virus così aggressivo».

Come funziona la vestizione?

«È lunga. Iniziamo da una prima vestizione sopra la divisa di guanti, calzari e maschere. Poi ci mettiamo la tuta e poi indossiamo un secondo paio di calzari e un secondo paio di guanti, il cappuccio, la visiera e adesso finalmente abbiamo dei caschi. Alcuni caschi specifici per la sala operatoria, che mettono i chirurghi, sono anche ventilati. Si è andato molto avanti ma ovviamente il pericolo resta».

Però per il contagio basta un niente.

«Non è distrazione, ma il fatto di essere a contatto con il virus e magari in quel momento avere un organismo un po’ debilitato, un abbassamento delle difese immunitarie, dovuto anche a terapie o a stanchezza, allo stress cui si viene sottoposti. Ci sono anche i pazienti asintomatici che magari hanno fatto 48 ore prima il tampone ma ancora non manifestavano sintomi, erano falsi negativi. Certo abbiamo avuto anche i falsi positivi. Inizialmente sopperivamo alle carenze con maschere da subacqueo. Occorreva ingegnarsi. Anche se il nostro di Tivoli è un ospedale di provincia, raccoglie numeri elevati di persone. La Asl Roma 5 è una delle più grandi d’Italia».

La Asl Roma 5 serve 72 paesi in provincia di Roma. 

«Siamo il Dea di riferimento che raccoglie anche la seconda città del Lazio, Guidonia, quindi abbiamo avuto un’affluenza inaspettata, e non siamo in grado sempre di rispondere al meglio come vorremmo poiché noi siamo uno spoke, quindi un ospedale che riceve e poi smista, non possiamo accogliere tutta questa utenza. Siamo in attesa del nuovo policlinico che spero sarà costruito in tempi non lunghi visto che i fondi risulta siano già stati stanziati».

Questo virus pare essere un po’ furbo. Ma i tamponi sono efficienti?

«Non del tutto, quindi basta abbassare un po’ la guardia perché hai un tampone negativo e puoi prendere il virus. Ho avuto un paziente con una tac polmonare suggestiva per Covid ma lui aveva avuto due precedenti tamponi molecolari negativi, al terzo era positivo. Poi è difficile anche capire come e quando ci si contagia».

Potrebbe anche succedere al supermercato.

«Può succedere ovunque. Può succedere a tutti, a un medico, ai pazienti. Non c’è un completo isolamento da questo virus con le mascherine chirurgiche, bisognerebbe tenere minimo una distanza di tre metri, non bisogna toccarsi gli occhi. L’unica mascherina che protegge è la Ffp3 senza valvola. Purtroppo c’è chi pensa che basti avere la mascherina sotto il naso e si è al sicuro. Peggio ancora quelle mascherine di stoffa, per cui se non si ha una chirurgica sotto, un filtro, non hanno senso. Noi cerchiamo in ospedale di stare attenti e di prendere tutte le precauzioni, ma ci ammaliamo lo stesso il più delle volte».

Ci sono medici e personale sanitario contagiati nel suo ospedale?

«Sì, ci sono stati molti contagiati soprattutto in questa seconda ondata. I numeri vanno richiesti all’Azienda ma per quanto si legge sembrano essere nell’ordine delle molte decine».

L’intubazione è necessaria oppure no? Durante la prima ondata furono intubati quasi tutti, poi si disse che l’infiammazione polmonare gestita con l’ossigeno uccideva il paziente…

«Purtroppo ci sono dei casi in cui è necessaria. Si arriva ad un punto tale che l’alveolo non è più in grado di scambiare l’ossigeno con il sangue, per via di tutte le sostanze tossiche che si accumulano. Inizialmente non si sapeva bene come sarebbe evoluta questa polmonite, se si fosse complicata con una sovrainfezione batterica e il formarsi di addensamenti polmonari, oppure virus e infiammazione o solo l’infiammazione, e il virus agiva per attivare tutta quella cascata di molecole che attivano l’infiammazione. Invece poi si sono conosciute tante cose con le autopsie, ci si è accorti dei microtrombi. Perché scatenando quella cascata di molecole infiammatorie di citochine, interferone, tutto quello da cui è fatta la cascata infiammatoria, accadono anche questi microtrombi a livello polmonare. Per quello nella terapia da polmonite da Covid, oltre all’antibiotico, l’azitromicina, si fa l’antivirale e il cortisone ed è inclusa in terapia anche l’eparina».

Però ci si può curare anche a casa.

«Si può, se la saturazione è sotto controllo. Se si scende di saturazione è un problema».

C’è stata una corsa all’acquisto del saturimetro, così ci si automonitora. Ma questo strumento può davvero fare la differenza? Qual è il limite e quando dobbiamo iniziare a preoccuparci?

«La saturazione va da un minimo di 90 a 100. Normalmente si ha 97-98 quando si sta bene. Anche sotto sforzo deve stare sui 97. Ma se c’è un problema di scambio di gas, quindi sangue pieno di anidride carbonica e ossigeno a livello alveolare, dove avviene appunto lo scambio, se lì c’è un problema dovuto alla raccolta di fluidi, o un processo infiammatorio in atto, si altera la barriera e questo scambio non avviene in maniera ottimale. Allora la saturazione si abbassa. Ecco perché, non essendo uno strumento complicato, è in grado di far capire anche a un profano se c’è qualcosa che non va».

Sotto il 90 di saturazione che facciamo?

«Sotto il 90 è da ricovero immediato. Adesso c’è un limite per chi arriva in ospedale, che è sotto il 94 per più di una  misurazione. Perché anche camminare per casa o passare un’aspirapolvere può determinare l’abbassamento della saturazione».

Sappiamo che è stato proposto, qualora dovessero finire i posti letto disponibili, di riservare le risorse sanitarie a chi ha più probabilità di sopravvivenza oppure che ha più anni di vita davanti a sé. Ci potrebbe veramente essere questa necessità?

«Noi siamo il Paese europeo con il maggior numero di persone anziane. Ma siamo anche bravi a prendere le linee guida e farle un po’ nostre. È capitato di avere una paziente di 93 anni con 78 di saturazione, ma noi l’abbiamo curata come tutti gli altri. Quella paziente non solo ha superato le cure ma è già uscita dall’ospedale ed è a casa, guarita. Si è fatta tutta la degenza Covid, ha avuto la polmonite, ha fatto l’ossigeno, il casco in ospedale, è stata curata bene e ha risposto alle cure. Nessuno di noi medici in Italia dirà no alle cure. Noi siamo “rianimatori intensivisti”, crediamo nella possibilità per chiunque di poter superare la fase critica. Il rianimatore non dirà mai di no, a nessuna età. Vengono operate persone di 103 anni per la frattura di femore ad esempio».

In effetti dai 90 anni in su ci sono stati molti casi di pazienti che si sono ripresi perfettamente.

«Il nostro organismo è una macchina perfetta, ha le sue risorse. Ci possono essere dei difetti. In Italia questa indicazione europea che hanno cercato di dare non viene recepita».

Come si può scegliere chi salvare?

«In base a tutto quello che hai a disposizione in quel momento. Sia di risorse che di esami, di personale, di come si è evoluta la patologia fino a quel momento».

Come si allevia la sofferenza di chi sta reagendo male alle cure? Con l’uso della morfina?

«L’uso di morfina può essere anche deleterio. Alcuni oppiacei vanno a deprimere i centri del respiro. Bisogna sempre trovare un equilibrio fra ciò che è meglio per il paziente e la sua situazione psicologica. Occorre evitare il panico. La mancanza d’aria è veramente terribile. Lascia il segno sempre e comunque, anche a livello mentale, si torna spesso a pensarci in seguito, ci si va a controllare continuamente. Allora ci si siede, ci si concentra, se è passato e va meglio ci si riprende, ma è psicologicamente logorante. La fame d’aria è una brutta bestia».

Molta gente ne soffre per motivi psicologici, figuriamoci per motivi clinici.

«Non si sa poi come può evolvere, non è per tutti uguale. Con il virus non si capisce come si legge questo dato. Magari una persona più fragile ha la meglio sul virus, risponde meglio alle cure, rispetto ad una persona sana, che non ha altre patologie pregresse».

Nella sua esperienza sul campo ha notato differenze tra il virus della prima e quello della seconda ondata? 

«Nella prima ondata, che ci ha colto di sorpresa, è stato sicuramente più aggressivo. Tra la prima e la seconda fase, probabilmente, c’è stato un periodo in cui ci siamo adeguati e abbiamo abbassato un po’ la guardia. Anche l’influenza normale quando arriva ha una prima fase più aggressiva, con una seconda fase di contagio maggiore e poi una fase di recrudescenza. Questo virus ha avuto un andamento simile, fino a quando si arriverà al vaccino».

Ci sono secondo lei i presupposti per una terza ondata della stessa gravità, in vista della riapertura delle scuole oppure delle Feste natalizie?

«In questa seconda fase dove c’è stato un maggior contagio di persone di una fascia di età non compresa tra gli anziani, abbiamo visto morire tanti cinquantenni. In questo momento ci si preoccupa maggiormente del Natale, dei nonni che possono restare soli. Non è certamente bello essere da soli o in un numero ristretto, non siamo abituati. Ma la preoccupazione è fondata, quindi bisogna mantenere certe precauzioni, seguire alcune norme può contenere parecchio la diffusione del virus».

Comunque, nonostante i tagli di fondi, la grave carenza numerica dei medici e il caos, le nostre terapie intensive hanno retto. Possiamo quindi essere fiduciosi?

«Tutti gli operatori sanitari, includo anche gli addetti alle pulizie o quelli che distribuiscono i pasti ai pazienti, si sono molto prodigati perché fosse così. Tutti cercano di dare il massimo, facendo corsi formativi dentro l’ospedale, perché facendo parte della macchina sanitaria hanno dovuto formarsi per fare bene il loro lavoro».

Dal punto di vista sindacale, qual è la battaglia che state cavalcando, che progetti avete per l’ospedale e i suoi colleghi?

«Al momento attuale come Cisl Medici abbiamo cercato di mettere alle strette gli amministrativi che non essendo direttamente sul campo, a volte potrebbero non riuscire ad avere una immediata idea di quello che realmente sta succedendo. Se non si tocca con mano è difficile rendersi conto. Si può leggere, informarsi, ma sul campo è un’altra cosa. Chi sta dietro una scrivania e cerca di sopperire a tutte le carenze dei lavoratori fa fatica. Non è colpa loro, fanno un altro lavoro. Spesso i Direttori Generali non sono neanche dei medici, sono manager e questo può fare la differenza in questo caso, con questa pandemia. È difficile far capire certi meccanismi. Inviamo lettere per i presìdi, abbiamo chiesto un tavolo tecnico anche con le altre sigle sindacali per capire come decidere per esempio sui fondi Covid. Il lavoro della segreteria regionale della Cisl Medici anche in questo caso è stato incessante a tutti i livelli. Sono state chieste maggiori tutele per i lavoratori, che si dividano bene i reparti. Esistono anche le altre patologie. I pazienti continuano ad ammalarsi di tumore, di cuore e purtroppo questa parte si è fermata parecchio e soffre. È stato chiesto di creare appositi percorsi perché siamo un ospedale misto adesso. Prima avevamo Palestrina come ospedale Covid e noi smistavamo. Avevamo un “reparto bolla”, con pochi letti, e il paziente che non poteva tornare a casa, che aveva bisogno di cure ma non aveva ancora il risultato del tampone, lo tenevamo lì per poi spostarlo nel reparto non Covid oppure in un reparto Covid da un’altra parte. Adesso ricoveriamo anche noi per Covid. Quindi i percorsi e gli aggiornamenti sono fondamentali. Abbiamo chiesto di chiudere dei servizi perché le persone possono ammalarsi. Chiediamo assunzioni a tempo indeterminato per i colleghi che non possono andare avanti da precari. Un lavoratore a tempo indeterminato è formato, ha oltretutto voglia di spendersi di più per l’azienda che quindi ne avrebbe un vantaggio. Siamo in guerra, speriamo di uscirne vincitori».

 

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