La vicenda di una dottoressa che ha fatto causa a due colleghi perché convinta delle loro responsabilità nella morte del padre. «L’esborso mi ha messo in difficoltà ma ho proseguito in appello per avere giustizia». La sua storia
«Sono un medico di medicina generale e so che se ho di fronte una persona che presenta sintomi come epigastralgia, vomito, sudorazione e agitazione, c’è il serio rischio che si tratti di infarto del miocardio. Basterebbe cercare queste parole su un qualsiasi motore di ricerca e chiunque troverebbe la risposta. Ma i medici che visitarono mio padre, tra i quali c’era anche un cardiologo, non gli prescrissero un elettrocardiogramma, non gli dissero di correre in ospedale. Neanche quando videro la sua mano continuare a tremare nel momento in cui dovette firmare il referto. Avrebbero dovuto inviarlo immediatamente al pronto soccorso. E invece mio padre morì di lì a poco».
Questa è la storia della dottoressa P. che, in seguito alla denuncia verso due medici che lei accusa di non aver curato a dovere suo padre (o meglio, di non avergli prescritto gli esami necessari per salvargli la vita), è stata condannata a pagare 140mila euro di spese legali al termine della sentenza di primo grado. «Una sentenza – spiega a Sanità Informazione – che non dà ragione né torto a nessuna delle due parti. Una sentenza che non spiega come sia morto mio padre, ma secondo la quale dobbiamo essere io, mia madre e mio fratello a dover pagare. Il problema, però, è che nel frattempo mia madre è morta e mio fratello si trova in una situazione economica molto difficile. Motivo per cui – spiega con la voce incrinata – tutto ricade sulle mie spalle…».
Il padre di P. era un uomo di 72 anni in piena salute. Nessun’altra patologia, nessuna situazione da monitorare: «Neanche un’influenza nell’ultimo periodo. A guardarlo gli si potevano tranquillamente dare non più di 60 anni». Eppure quella notte comincia a fargli male il petto, inizia a tremare, a sudare e a vomitare. La moglie, madre di P., non aveva mai visto il marito in quelle condizioni.
Sono le 5.30 del 20 marzo 2009. «Mia madre chiama la guardia medica più vicina – spiega P –. Il medico riscontra anche una pressione molto alta (210/115) e dà a mio padre dei farmaci per abbassarla subito. Una volta che la pressione è tornata sotto controllo (160/80), il medico si limita a prescrivere analisi generiche. Non gli consiglia di andare al pronto soccorso».
I dolori nel petto dell’uomo non si placano. «Mia madre mi chiama e io, che per lavoro vedo quotidianamente situazioni simili, mi allarmo. Le dico che mio padre deve correre immediatamente a fare un elettrocardiogramma. “Chiamate subito il medico”, le urlo. Lo fanno. Il medico però è in ferie e al suo posto si presenta un sostituto. Quando sento che lo avrebbe visitato un cardiologo mi tranquillizzo». Ma dalla visita non emerge nulla che faccia pensare ad un rischio imminente: «Il cardiologo non ritiene necessario far fare ulteriori accertamenti a mio padre: “Lei non ha niente”, gli dice, “è solo un’influenza gastroenterica. Gira parecchio negli ultimi tempi…”. E allora penso che forse sono io ad allarmarmi troppo, che se un collega dice che non c’è niente di cui preoccuparsi, forse sono io ad esagerare il tutto perché si tratta di mio padre. Così mi metto l’anima in pace e non ci penso più». Sono le 11 di mattina. Passa la sera. Alle sei del mattino successivo la moglie trova il marito senza vita. Immobile sul divano con la tv accesa.
«In questi anni mi sono trovata almeno due volte nella stessa situazione in cui si sono trovati quei due medici quando hanno visitato mio padre. In entrambe le occasioni, una volta capiti quali erano i sintomi, non ho esitato a prescrivere un elettrocardiogramma. Quelle due persone sono sopravvissute. È il mio mestiere e dunque so per certo che i medici che hanno visitato mio padre non hanno fatto bene il loro lavoro. Per questo io, mia madre e mio fratello decidiamo di denunciarli».
I tre si affidano ad un avvocato che chiede l’autopsia del cadavere. Ma da marzo si arriva ad ottobre, mese in cui l’autopsia viene effettivamente eseguita. «Non emerge nulla, è passato troppo tempo. Alla fine dei conti, non si sa di cosa è morto mio padre», spiega P. Anche in virtù di questa autopsia che non chiarisce le cause della morte, i tre vengono condannati a pagare le spese legali. «Il primo grado si chiude con una sentenza che afferma, sostanzialmente, che mio padre è morto di morte improvvisa. Ma non è così, la sua morta era prevedibilissima. Bastava prendere in considerazione i suoi sintomi e mandarlo in ospedale». P. si ritrova dunque con lo stipendio pignorato e grosse difficoltà a pagare l’affitto dello studio, le tasse e tutte le spese della sua professione.
Tramite il suo avvocato, P. fa richiesta per sospendere la condanna di primo grado al pagamento delle spese, perlomeno fino al termine dell’appello. Ma c’è un problema: l’avvocato non avrebbe motivato la richiesta. Non spiega che, data la situazione che si è venuta a creare, P. è l’unica dei tre a poter effettivamente pagare. Ma una richiesta di sospensiva senza motivazioni non può che essere rigettata e, non essendo appellabile, non si può più fare nulla: la donna deve pagare. Questo episodio la convince ulteriormente che forse si è affidata alla persona sbagliata e decide di cambiare avvocato. È qui che P. capisce che, al di là della corretta voglia di giustizia che nasce nel momento in cui si ritiene di aver subito un torto, è fondamentale affidarsi a professionisti che non la fanno troppo facile, che valutano i pro e i contro di tutte le situazioni, le opportunità e i rischi di una eventuale causa contro la classe medica. «Non immaginavo di poter giungere a dover pagare delle spese legali così alte – conclude –, nessuno mi aveva informato di una tale possibilità».
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