L’hi-tech in Italia, Civitillo (psicoterapeuta): «C’è un trend di grande apertura verso l’utilizzo di dispositivi multimediali pensati per lavorare con persone con deficit di attenzione e iperattività. Circolano software utilizzati per trattare i problemi legati all’apprendimento, altri che hanno lo scopo di favorire forme di socializzazione»
“Giocando s’impara” e ci si può curare. Negli Stati Uniti è EndeavorRx, un videogame appunto, l’ultima frontiera per il trattamento della sindrome da deficit di attenzione e iperattività (ADHD). Il videogioco, approvato dalla Food and Drug Administration, l’ente governativo statunitense che si occupa della regolamentazione dei prodotti alimentari e farmaceutici, può essere prescritto come terapia, parte di un programma terapeutico più ampio ed individualizzato, ai bambini affetti da questo disturbo, che abbiamo un’età compresa tra gli 8 e i 12 anni.
«Negli Stati Uniti, sono sempre più forti le voci, supportate da numeri allarmanti, che denunciano un utilizzo eccessivo e in costante crescita di farmaci somministrati a soggetti in età scolare – spiega Andrea Civitillo, psicologo clinico, psicoterapeuta e coordinatore del Network Scuola dell’ Ordine degli Psicologi del Lazio -. Ed è, molto probabilmente, per questo motivo che il videogioco viene presentato come un’opzione di trattamento non farmacologico per bambini con diagnosi di ADHD».
Il gioco, approdato sul mercato dopo sette anni di studi clinici condotti su 600 bambini, richiede un certo livello di attenzione e spinge il giocatore a focalizzarsi su più compiti contemporaneamente. L’ADHD, infatti, è un disturbo del neurosviluppo che causa un persistente problema di attenzione, iperattività e impulsività, che influiscono negativamente sulla qualità della vita di bimbi e famiglie. Si stima che nel mondo colpisca il 5% dei bambini tra i 6 e gli 11 anni. In Italia, secondo i più recenti dati dell’Istituto Superiore di Sanità i casi sarebbero circa 30mila.
«Avere una fotografia attendibile sulle tecniche di intervento nel territorio nazionale non è cosa semplice – spiega Civitillo -, poiché il quadro è molto eterogeneo. Tuttavia, possiamo dire che in Italia c’è un trend di grande apertura verso l’utilizzo di dispositivi multimediali pensati per lavorare con persone con diagnosi di ADHD. Per esempio, circolano molti software utilizzati per trattare i problemi legati all’apprendimento, altri che hanno lo scopo di favorire forme di socializzazione». Tecniche di derivazione cognitivo comportamentale, sistemico relazionale, psicoanalitico, sono alcuni dei modelli di intervento psicologico più utilizzati per il trattamento deficit di attenzione e iperattività. «Ultimamente – racconta lo psicoterapeuta – stanno incontrando una discreta diffusione interventi che utilizzano la Mindfullness, oggetto di un recente studio condotto all’ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma. Le metodologie utilizzate potrebbero essere suddivise in due macro-categorie: le tecniche orientate al controllo del sintomo e quelle rivolte alla comprensione dei vissuti».
«L’attenzione per la tecnica rischia di portare lontano da aspetti che sono di cruciale importanza quando ci si occupa di questi problemi (e non solo). Senza la creazione di condizioni adeguate non vi è tecnica che tenga – sottolinea lo specialista -. Immaginiamo l’esecuzione di gesto atletico, per esempio una volée di tennis. Tale movimento, per quanto eseguito con tecnica sopraffina, sarà assolutamente inefficace se effettuato dando le spalle alla rete oppure a due metri dalla pallina. Occorre guadagnare la posizione adatta: essere nel posto giusto al momento giusto. Cosa è che in ambito psicologico clinico rende possibile l’utilizzo di una tecnica – chiede lo psicologo -? Un’insieme di attività tanto complesse e difficili, quanto molto spesso trascurate – risponde -, come la costruzione del setting, del senso e di significati. È necessario domandarsi che cosa ci sta comunicando la persona con ADHD, che relazioni intercorrono tra individuo e contesto, da quali culture è attraversato il luogo nel quale interveniamo, riconoscere dignità ai vissuti, anche quando sono espressi in modi che ci fanno sentire frustrati e avviliti».
Per comprendere meglio l’importanza di creare le condizioni adeguate, prima ancora di utilizzare una tecnica, raccontiamo la storia di Andrea (il nome è di fantasia), uno studente di 16 anni affetto da ADHD. «Andrea non riusciva a stare fermo un attimo, le sue capacità attentive erano ridotte al minimo. Era provocatorio, irascibile, talvolta aggressivo – racconta Civitillo -. Le verifiche a scuola erano particolarmente drammatiche: non c’era modo di fargli fare un compito in classe. Talvolta strappava i fogli su cui avrebbe dovuto eseguire le prove. La chiave di volta fu capire che questo studente sentisse come mortificante e violento svolgere un compito diverso da quello dei compagni di classe (non era in grado di risolvere equazioni o scrivere dei temi). Di tale ipotesi se ne parlò con i compagni di classe, con gli insegnanti e con la famiglia. Si osservò un cambiamento importante quando a questo ragazzo non solo fu chiesto di cimentarsi in verifiche simili a quelle proposte ai compagni di classe, ma quando il giovane comprese che chi gli stava attorno aveva compreso i suoi sentimenti, le sue paure di essere escluso e discriminato, emozioni alle quali – conclude lo psicoterapeuta -, pian piano, è riuscito anche a dare un nome».
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