di Alessandro Salerno, Operatore socio-sanitario
Ormai manca poco meno di un mese al 22 febbraio, data in cui ricorre il ventennio di presenza all’interno del sistema sanitario e assistenziale dell’operatore socio sanitario. Una figura professionale nata sulle ceneri di altre figure del ruolo tecnico e di supporto, quali ad esempio l’OTA o l’OSA.
Dai reparti ospedalieri, fino ad arrivare sul territorio e quindi all’assistenza domiciliare, in questi venti anni l’OSS ormai è diventato funzionale ad ogni contesto: un operatore che diventa il vero protagonista, in particolar modo quando parliamo di case di riposo e residenze sanitarie assistenziali, dove le patologie legate alla senilità e quindi a un importante stato di cronicità ne richiedono maggiormente la presenza al fine di poter sostenere i pazienti in quelle che sono le attività di vita quotidiana.
Anziani, dunque, e persone per lo più in stato di allettamento che grazie agli OSS ritornano a camminare, mangiare e a svolgere quelle funzioni che normalmente in un’altra condizione o in altri momenti della loro vita avrebbero continuato a svolgere autonomamente.
Ma al di là delle strutture residenziali, l’OSS ormai è entrato a pieno titolo nello svariato contesto socio-sanitario: lo ritroviamo non a caso nelle scuole o nei penitenziari. Insomma una figura dinamica, che dal 2001 ad oggi ha dato il suo valido contributo affiancando e collaborando con i vari professionisti del settore. Eppure, nonostante questo, manca a questo professionista la giusta collocazione e il giusto inquadramento.
Non è ancora chiaro ad esempio per quale motivo un operatore che lavora quotidianamente con la malattia resti collocato nel ruolo tecnico. Ed è ancora più incomprensibile quello che si legge sul sito dell’ISS, dove alla voce operatore socio sanitario c’è scritto “operatore d’interesse sanitario”: una classificazione poco comprensibile che non spiega nulla e non rappresenta per niente una categoria che ha trascorso tutti questi anni ad occuparsi di ammalati all’interno del servizio sanitario nazionale.
Una classificazione che continua a mortificare una categoria che oggi più di ieri si sente fondamentalmente parte integrante del servizio sanitario nazionale, nonostante il sistema organizzativo e gestionale non riesca in alcuna maniera a mettere in atto politiche d’integrazione vere, affinché si raggiunga il miglioramento del servizio stesso ai cittadini.
Non è possibile, infatti, che l’OSS sia formato ancora attraverso corsi professionali affidati alle scuole private e soprattutto non è possibile assistere a questa frammentazione formativa che produce OSS diversi da una regione all’altra. L’operatore socio sanitario è ormai insostituibile per quello che fa quotidianamente, ma deve giungere ad un cambiamento, che può avvenire solo attraverso l’introduzione di nuove metodiche formative tese a garantire l’acquisizione di nuove competenze e quindi ad arrivare a un arricchimento del mansionario, in maniera da poter interagire sempre meglio con gli altri professionisti ormai efficacemente preparati come gli infermieri.
Una luce sembrava essersi accesa nel 2018 attraverso la Legge Lorenzin, che proponendosi il riordino delle professioni sanitarie aveva proposto l’entrata dell’OSS all’interno dell’area socio sanitaria. Ma quella luce fioca si spense totalmente quando successivamente non c’è stata l’intenzione di riconoscere a tale figura nemmeno quella che dovrebbe essere la sua normale collocazione nell’area socio sanitaria. Mi chiedo inoltre che fine abbia fatto quel famoso OSS con “formazione complementare”, per il quale sono stati fatti corsi a pagamento in tutta Italia da Nord a Sud, per conseguire un titolo che non si potrà mai spendere.
Un sopruso continuo dunque nei riguardi di questo professionista, che continua a operare in alcuni contesti in pieno esercizio abusivo di professione, il quale purtroppo continua ad essere ai margini anche in questa triste fase storica della pandemia da Covid-19. Infatti, nonostante sia stato fianco a fianco con medici e infermieri, e lo è tutt’ora, non è stato mai nominato una sola volta. Si è parlato solo degli ufficiali, i soldati semplici restano ignoti come quel milite, di cui si disse, concedendogli la medaglia d’oro: “resistette inflessibile nelle trincee più contese, prodigò il suo coraggio nelle più cruente battaglie e cadde combattendo senz’altro premio sperare che la vittoria e la grandezza della patria”.
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