L’ex assessore al Welfare: «Io capro espiatorio, tutte le strategie adottate sono state sempre condivise con la giunta e concordate con gli scienziati, i consulenti, il CTS e i gruppi di lavoro che contenevano i migliori uomini di sanità e scienza d’Italia»
Ad un anno di distanza dall’inizio della pandemia, Giulio Gallera, smessi i panni di assessore al Welfare di Regione Lombardia, ha scelto di stare dalla parte dei cittadini che non hanno ricevuto i ristori. Dal suo nuovo ufficio, al 21° piano del Pirellone, come consigliere regionale ha avviato una campagna di segnalazioni e un programma per una “nuova normalità”. «Quattro anni e mezzo come assessore alla sanità sono stati molto intensi. L’ultimo anno si è scatenata la tempesta perfetta ed è stato molto difficile, con una pressione forte, ma abbiamo dato il massimo e il tempo e la scienza ci stanno dando ragione».
«Sono tornato in consiglio, il tema della pandemia è ancora nei miei pensieri, ma ho concluso il mio turno in sanità. Ora mi sto occupando dell’emergenza economica e sociale. Sto aiutando e dando voce a coloro che non hanno ricevuto, o solo in parte, i ristori dal governo e voglio portare avanti un messaggio molto chiaro: è fondamentale trovare un equilibrio tra sicurezza sanitaria ed economica».
«Porterò dentro di me cicatrici profonde. Ho vissuto in prima persona la sofferenza, il senso di impotenza, le urla, i pianti della gente e il dolore profondo che arrivava dagli ospedali. D’altro canto, ho avuto l’onore di governare un sistema di pubblica amministrazione complesso. In Lombardia abbiamo 27 ASST, 120 mila tra infermieri e medici che lavorano negli ospedali pubblici e 30 mila in quelli privati accreditati che rappresentano un’altra realtà importante; poi ci sono le agenzie della salute che hanno un ruolo fondamentale nella ricerca epidemiologica».
«Siamo stati oggetto di pesanti critiche, ma il tempo e la scienza ci daranno ragione. Innanzitutto, abbiamo avuto la capacità di resistere e di reagire in un contesto complesso con molte incognite. La prima osservazione da fare oggi è che il virus era presente in Italia già a novembre 2019 o forse anche prima, il che significa che circolava in molte zone. Quando è esplosa la pandemia a Codogno e poi a Bergamo, si trattava in realtà di due varianti più contagiose e letali. Così siamo passati da 800 posti letto in terapia intensiva a 1800 e da 1000 a 12 mila nei reparti Covid. Numeri impressionanti che siamo riusciti a fronteggiare e, quando abbiamo potuto organizzarci, abbiamo dimostrato di essere pronti ad affrontare la seconda ondata più di altre regioni».
«La Lombardia per diverse settimane è stata presa a modello dal resto d’Italia, poi ad un certo punto tutto è cambiato nei nostri confronti, mentre noi abbiamo continuato a lavorare per vincere la battaglia contro il virus. Qualcuno ha voluto appositamente trasformare un racconto positivo in uno terreno di scontro. Siamo stati messi a confronto con il Veneto, dicendo che a febbraio e marzo avevano avuto una capacità di reazione forte, puntuale, con cure a domicilio, mentre tutto ciò era mancato in Lombardia. Solo qualche mese più tardi però, a novembre, la seconda ondata si è abbattuta sul Veneto in maniera virulenta, evidenziando gli stessi problemi avuti da noi a marzo ed aprile. Con la differenza che era la seconda ondata. Tutto ciò per dire che dinnanzi ad un virus di questa portata, le difficoltà sono le stesse e sarebbe opportuno lavorare tutti insieme per vincere la battaglia, anziché creare delle fratture. Spero che con il nuovo governo ci si possa riuscire».
«Ho dato il massimo dal 20 febbraio fino all’ultimo giorno in cui ho fatto l’assessore, compresa la campagna vaccinale del 4 gennaio. Le strategie adottate sono state sempre condivise con il presidente Fontana e con la giunta e concordate con gli scienziati, i consulenti, il CTS e i gruppi di lavoro che contenevano i migliori uomini di sanità e scienza d’Italia. Non ho mai preso una decisione che non fosse condivisa, ho la coscienza a posto. Sono stati fatti errori, certo, ma le difficoltà erano molte e le condizioni non ottimali. Vorrei ricordare che questa pandemia si è abbattuta su una politica sanitaria che ha fatto registrare negli ultimi dieci anni tagli di risorse e personale. Ho sempre pensato che la sanità italiana fosse un miracolo perché un paese che investe una percentuale di risorse che corrisponde al 6,7% del Pil, quando la media europea è dell’8,5%, ha un gap di 8 miliardi di investimenti pubblici da colmare per essere competitiva. Invece siamo sempre stati all’avanguardia e con un sistema sanitario, ormai unico al mondo, di tipo assistenzialistico».
«Con la pandemia è emersa la mancanza di medici, perché non si è investito nelle scuole di specializzazione e nelle borse di studio. Tra i medici di medicina generale negli ultimi anni è mancato il ricambio. Abbiamo ridotto il personale e il numero dei posti letto all’interno degli ospedali per arrivare a tre ogni mille abitanti. Oggi qualcosa sta cambiando ed è di buon auspicio».
«È un professionista preparato. Lo conosciamo. A maggio era stato interpellato per la realizzazione dell’ospedale in fiera, dedicato alle terapie intensive. È chiaro però che la campagna vaccinale avrà successo solo se arriveranno i vaccini e questo è il vero nodo da sciogliere oggi. Un problema europeo prima che nazionale e regionale. E poi occorre sapere se avremo il personale, perché il precedente governo si era impegnato ad assumere 15 mila persone da mandare nelle regioni per la grande campagna vaccinale di massa. Cosa che non è mai stata fatta. Allora non è immaginabile che la campagna di 10 milioni di vaccinazioni in Lombardia e 60 milioni in Italia sia posta sulle loro spalle, il governo precedente non aveva dato una risposta seria a questo punto. Occorre anche formare il personale per metterlo a disposizione dei centri vaccinali, altrimenti immaginare che il personale attuale e a condizioni date possa fare una campagna vaccinale sul territorio è una visione illusionistica».
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