Gobber (SICP): «Con la sentenza n.242 del 2019 la Corte Costituzionale aveva chiesto al Parlamento di legiferare in materia di suicidio assistito. Ad oggi, in Italia, resta una pratica illegale. È, invece, del tutto legittimo che il paziente rinunci a qualsiasi intervento sanitario, anche salvavita»
Roberto Sanna se n’è andato. Così come aveva deciso, con il suicidio assistito. Aveva 34 anni e si era ammalato di Sla da meno di un anno, ma il decorso della malattia è stato così rapido da averlo spinto a compiere questo ultimo viaggio verso la Svizzera.
In Italia, il suicido assistito, così come l’eutanasia, è vietato. In particolare, secondo l’articolo 580 del Codice penale, chi assiste e istiga al suicidio rischia fino a 12 anni di carcere. Almeno sulla carta. Perché nel settembre 2019 i giudici della Corte Costituzionale, con la sentenza n.242 , hanno affermato esattamente il contrario, o quasi: “Non è sempre punibile chi aiuta al suicidio”. Non è condannabile in presenza di condizioni determinate: è necessario che si tratti di un malato terminale, capace di intendere e di volere, le cui sofferenze psico-fisiche siano intollerabili.
«Con la sentenza n.242 del 2019 – spiega Gino Gobber, presidente della Società Italiana Cure Palliative (SICP) -, la Corte aveva chiesto al Parlamento di legiferare in materia. Per la contingenza o per il particolare periodo storico che stiamo vivendo, le Camere non hanno ancora affrontato l’argomento. Di conseguenza il suicidio assistito resta un atto vietato nel nostro Paese».
Ripensando ai casi del passato, questa sentenza avrebbe potuto essere applicata a Piergiorgio Welby, malato ma cosciente, ma non ad Emanuela Englaro, che trovandosi in stato vegetativo non avrebbe potuto esprimere il suo volere.
Ad ogni modo, la sentenza n.242 rimarrà nella storia per aver evitato che Marco Cappato, dell’associazione Luca Coscioni, fosse condannato ad oltre 10 anni di reclusione per aver accompagnato Fabiano Antoniani, in arte DJ Fabo, in Svizzera. Il quarantenne milanese tetraplegico è morto ricorrendo al suicidio assistito, premendo con i denti la pulsantiera che attiva l’iniezione del farmaco letale.
La differenza tra il suicidio assistito e l’eutanasia, infatti, è racchiusa proprio nel concetto di autodeterminazione: con l’eutanasia è un medico o un’altra persona a somministrare il farmaco su libera richiesta del paziente; nel suicidio assistito, invece, è il diretto interessato a compiere il gesto che causa la sua stessa morte, agli altri è affidato il compito di preparare quanto necessario affinché questa azione possa essere ultimata.
In un caso o nell’altro è sempre necessario ricorrere all’aiuto di personale specializzato. E a chi sarebbe delegato questo compito se il Parlamento italiano dovesse approvare una legge sul suicidio assistito?
«Difficile stabilirlo a priori – risponde Gobber -, poiché non essendoci nulla di simile in Italia, è probabile che, nell’eventualità, non scontata, che un simile percorso venga aperto, sia necessario individuare del personale ad hoc».
Il suicidio assistito è legale in Olanda, Belgio, Lussemburgo e Svizzera. In Italia, le cure palliative sono state inserite nei Lea (Livelli essenziali di assistenza). È del tutto legittimo che il paziente rifiuti o rinunci, in modo informato e consapevole, qualsiasi intervento sanitario, anche se salvavita, come ventilazione, idratazione, nutrizione artificiale. «Convinzioni – sottolinea Gobber – che qualunque italiano può esprimere anche mentre gode di perfetta salute, attraverso le disposizioni anticipate di trattamento (Dat) per quanto previsto dalla legge 219 del 2017».
La legge 38 del 15 marzo 2010 ha dato la cornice normativa allo sviluppo delle cure palliative ma, come spesso accade, ad una normativa eccellente corrisponde una realtà zoppicante. «Le cure palliative dovrebbero essere garantite a chiunque ne abbia diritto, in qualunque luogo d’Italia, proprio perché inserite nei Lea. Ma la realtà dei fatti è un’altra: sul tema delle cure palliative in Italia siamo molto indietro – commenta il presidente della SICP -. Ci sono delle realtà ben attrezzate, altre lo sono in modo sufficiente, altre ancora sono totalmente carenti. E fin quando queste lacune non verranno sanate si continueranno a calpestare i diritti di questi malati e delle loro famiglie. Solo una volta che il Sistema Sanitario metterà gli operatori che ne fanno parte nella condizione di poter assolvere totalmente ai loro compiti, garantendo a tutti i cittadini italiani un equo accesso alle cure palliative, allora il malato – conclude Gobber – sarà davvero libero di scegliere, nel rispetto delle sue più profonde convinzioni e delle normative attualmente vigenti».
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