di Antonella Celano (presidente Associazione Nazionale Persone con Malattie Reumatologiche e Rare – APMARR APS) e Andrea Tomasini (consigliere nazionale Associazione Nazionale Persone con Malattie Reumatologiche e Rare – APMARR APS)
Ci piacerebbe poter rispondere di si – da cittadini italiani, ma sembra che ogni giorno, per noi “fragili” s’addensi la nebbia e non s’intravveda accesso a una soluzione. Se avete la compiacenza di seguire il nostro ragionamento, saremmo curiosi di capire dove sbagliamo –ammesso vi sia errore.
La pandemia da Covid-19 ha posto sotto scacco le società contemporanee in tutto il pianeta, sollecitando misure di reazione e contenimento che sono procedute di volta in volta adeguando le politiche pubbliche ai numeri – quante infezioni, in quanto tempo- e al processo di chiarimento scientifico rispetto al virus, all’infezione e alla malattia che provoca. Come spesso accade con le epidemie, i provvedimenti rincorrono i contagi, nella speranza di raggiungere la soglia a partire dalla quale si possa controllare l’evento. Questa corsa, che dura da più di un anno, ci trova in affanno, e non solo per il virus in sé.
Si tratta di un nuovo agente infettivo che, anche se non letale come altri che in tempi recenti hanno fatto la loro comparsa, mettendo a rischio la sopravvivenza della specie umana – es. HIV- ha comunque messo alle corde i sistemi sanitari nazionali, in marcata difficoltà nel tentativo di gestire l’onda dell’emergenza che, dopo lo smantellamento della sanità territoriale, ha investito e travolto le strutture ospedaliere. Più che la letalità in sé di Covid-19, più che la storia naturale dell’infezione e della malattia, ci sembra che faccia la differenza, e giochi un ruolo fondamentale, la modalità di organizzazione sanitaria per la presa in carico e la gestione della salute e quindi anche del Covid. La mortalità da Covid-19 fa affiorare aree di vulnerabilità all’interno della società che, da Regione a Regione, hanno prodotto esiti differenti. Per noi resta difficile da accettare questo fatto, ma è noto che la salute in Italia –purtroppo- vive di disparità regionali (differenti rimborsi, accessi alle cure, struttura di costi nonché di allocazioni di spesa). “È il federalismo bellezza!”. Non ne siamo del tutto certi perché è noto che ogni struttura federale è efficiente e soddisfa le ragioni per cui è nata – aderire alle necessità locali – solo se c’è un forte centro di coordinamento e se c’è coerenza di programmazione. Forse è mancato un coordinamento nazionale per porre in essere politiche uniformi sul territorio nazionale, piuttosto che discutere con cadenza settimanale su quale colore fosse rispondente agli indicatori? In alcune Regioni il Covid ha ucciso cinque volte di più che in altre. E in Europa esistono nazioni con una mortalità che è la metà della nostra. Noi, che siamo persone che vivono con patologie croniche e fragili, osserviamo attoniti ciò che accade.
Queste considerazioni non vogliono essere facile logica a posteriori, ma solo l’esternazione della preoccupazione con cui noi – le associazioni e le persone che le compongono e le animano, nonché coloro che rappresentiamo- noi pazienti con patologia cronica, noi “fragili” osserviamo l’ennesimo cambio di rotta che la bozza del piano vaccinale presentata sabato propone. Il documento si apre con una condivisibile premessa sul diritto alla salute, sul richiamo alla carta costituzionale, sul fatto che c’è scarsità di vaccini e che si debbano prendere decisioni sulla base delle evidenze scientifiche, man mano che emergono. Dopo aver richiamato valori e principi di equità, reciprocità, legittimità, protezione, promozione della salute e del benessere, il documento dichiara di voler modificare quanto precedentemente stabilito, riaggiornando quello che di fatto è un triage sociale. Il triage serve a valutare l’urgenza conferendo un codice colore differente per identificare le urgenze indifferibili rispetto a quelle differibili. È certamente vero che oggi di Covid e di dinamica del contagio e di storia naturale della malattia sappiamo di più, ma siamo nello stesso momento in possesso di tutte le informazioni necessarie per conoscere i costi – sociali, economici e anche medici- del differire la presa in carico di persone che vivono con patologia cronica e fragilità?
Come cittadini italiani ed europei siamo fortunati perché viviamo in Stati con sistemi sanitari nazionali a copertura universale. Sistemi sanitari figli di quelle politiche pubbliche che hanno caratterizzato il Welfare State sin dalla sua nascita: accompagnare e sostenere la vita sociale e “naturale” del cittadino, prevenendo e sostenendo la fragilità affinché la persona fragile –socialmente o dal punto di vista sanitario- non soccomba.
Si tratta di politiche pubbliche che agiscono nel presente per evitare il manifestarsi di crisi irreversibili nel futuro. Un investimento in provvedimenti e fiducia che è simile all’affidamento che la persona fa sottoponendosi a vaccinazione. Il vaccino infatti è un composto che si prende oggi “da sano” per evitare di diventare malato domani. Lo amministra lo Stato per il tramite della sanità pubblica che è il modo diretto e immediato, carnale, con cui il cittadino fa esperienza diretta della cosa pubblica.
Siamo, a distanza di un anno dal lockdown, in condizione di fare il conto delle conseguenze e dei costi sostenuti, legati al fatto che il sistema sanitario nazionale per poter gestire l’emergenza del Covid ha lasciato indietro la gestione di continuità terapeutica, il rinvio di accertamenti diagnostici, il differimento di interventi di elezione? Oggi sappiamo di più del Covid, ma sappiamo anche di più di cosa comporta differire e riclassificare le necessità di cronici e fragili?
Lo Stato è il sovrano che legalmente e legittimamente prende in mano la vita e quindi la salute del cittadino: allorché definisce e ridefinisce mediante triage sociale le precedenze di accesso alle cure e alla prevenzione, non sta di fatto ridefinendo i criteri e diritti di cittadinanza secondo una logica legata all’accesso al farmaco e alla terapia?
Sul piano dei valori e dell’equità la cosa ci allarma e ci rende perplessi. Il concetto di cittadinanza terapeutica che il triage sociale pone in essere stratifica la cittadinanza secondo criteri che non prendono in carico la fragilità, bensì la differiscono nella lista di priorità – forse basata su criteri “da sani” quali ad esempio produttività ed efficienza?
Siamo consapevoli della crisi che stiamo vivendo, ma siamo sempre vissuti con l’idea che dovessero esser messi in salvo per primi i più deboli – che è poi la ragione per cui ci siamo costituiti in associazioni di persone che vivono con malattie croniche. Ora è diverso? Che sistema è quello che non riesce ad essere capace di garantire e assicurare quella salvaguardia della salute solitamente associata alla cittadinanza – fragilità e cronicità – e nello stesso tempo mostra affanno nella gestione dell’emergenza? Che valori di equità e giustizia sociale esprime? Ovvio che il piano vaccinale nasce per garantire il diritto alla salute e rispondere all’emergenza Covid. Ovvio che si aggiorna sulla base dell’andamento dell’epidemia e delle conoscenze scientifiche che si accumulano e della disponibilità di armi terapeutiche di cui via via si dispone. Ma nello stesso momento, adesso c’è chi sta studiando e provvedendo a quantificare il conto non narrato che la pandemia ci sta presentando, non tanto in termini di infezioni, bensì in affioramenti di fragilità non prese in carico e differite e poi travolte?
Si parla di passaporto per i vaccinati. A noi che con la nostra patologia abbiamo varcato la frontiera della cronicità e abitiamo nella fragilità, piace pensare che sia possibile vivere una buona vita anche in tempi difficili. Ma questa possibilità oggi dipende solo da chi decide chi siano i cittadini ammessi alla neonata repubblica terapeutica italiana. Noi siamo per una diffusione dei diritti di cittadinanza e per questo continuiamo a impegnarci – per noi e per tutti, con dedizione, responsabilità, e civismo solidale affinché nessuno rimanga indietro.
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