La coordinatrice dell’Osservatorio giuridico della Società Italiana di Riproduzione Umana: «L’ordinanza del tribunale di Santa Maria Capua Vetere, che consentirà ad una signora il trasferimento degli embrioni crioconservati senza il consenso del partner, non fa prevalere la volontà della donna su quella dell’uomo, ma il diritto dell’embrione a nascere»
Un’ordinanza del tribunale di Santa Maria Capua Vetere consentirà ad una donna il trasferimento degli embrioni crioconservati senza il consenso del partner. Una decisione che sembra far prevalere la volontà femminile su quella maschile. Ma non è così. «Sulla stampa è emersa una versione distorta della vicenda – spiega Maria Paola Costantini, avvocato, coordinatrice dell’Osservatorio giuridico Siru, la Società Italiana di Riproduzione Umana -, in quanto pare sia stato dato risalto alla possibilità della donna di pretendere e farsi trasferire l’embrione nel proprio utero. Dall’analisi delle ordinanze, invece, si evince chiaramente un’altra chiave di lettura: i giudici ritengono che il trasferimento debba avvenire su richiesta della madre, nonostante il dissenso del padre, in virtù del preminente diritto alla vita dell’embrione. Una volta formato l’embrione, e acquisito il consenso, sorgono le responsabilità genitoriali, compreso il mantenimento, anche a prescindere dalla separazione dei componenti della coppia».
Per la sua complessità, non è escluso che la vicenda di Santa Maria Capua Vetere possa avere delle ripercussioni sui centri di Procreazione Medicalmente Assistita (PMA) e sulle coppie che intendono accedervi. «Prima di esaminarne gli aspetti salienti – dice l’avvocato Costantini – è necessario chiarire che il tribunale di Santa Maria Capua Vetere ha emanato un’ordinanza in un procedimento cautelare e che, per tanto, ha una valenza molto limitata. Non si tratta né di una sentenza della Corte di Cassazione, né della Corte Costituzionale».
In secondo luogo, per comprendere meglio la decisione dei giudici del tribunale casertano, è anche doveroso spiegare quanto previsto dalla legge 40 del 2004 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita). «Questa legge obbliga la coppia che intenda accedere ad un percorso di PMA a firmare un consenso informato, che oltre a rappresentare un consenso alla prestazione sanitaria analogo, ad esempio, a quello sottoscritto prima di un intervento chirurgico, vincola e attribuisce la genitorialità». In altre parole, i due componenti della coppia si impegnano ad essere padre e madre del bambino che nascerà prima ancora che questo venga alla luce.
Ed è proprio su quanto scritto nel consenso informato che il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere ha fondato la sua ordinanza: sul diritto dell’embrione a vivere. Nella vicenda in questione, la coppia della provincia di Caserta aveva crioconservato gli embrioni per tutelare la salute della donna, vittima di complicanze da iperstimolazione (la prima fase della PMA prevede una stimolazione ormonale per incrementare la produzione degli ovociti, successivamente prelevati e fecondati, ndr).
«Allo stesso tempo però – continua la coordinatrice dell’Osservatorio giuridico Siru – la coppia, firmando i consensi previsti per avviare il percorso di PMA, aveva già perso diritti e libertà di scelta: la procedura può andare avanti anche contro la loro volontà. Questo significa che se anche entrambi i componenti della coppia volessero interrompere il percorso di PMA, stando all’ordinanza, la loro volontà non avrebbe alcun valore».
Ma questo è solo un esempio. Per quanto ipotetico, però, è utile a sottolineare e chiarire la disparità tra l’uomo e la donna emersa dall’ordinanza del tribunale di Santa Maria Capua Vetere. «La donna – spiega Costantini – non potrà mai essere obbligata al trasferimento degli embrioni nel suo utero, perché i diritti sanciti dalla Costituzione italiana agli articoli 2 (che “riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo”) e 32 (secondo il quale “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario”) farebbero prevalere la sua volontà».
Capovolgendo il caso del casertano, dunque, l’uomo non avrebbe potuto imporre alla sua ex moglie il trasferimento degli embrioni nel suo utero, né avrebbe potuto ricorrere ad una maternità surrogata, vietata dalla legge italiana. «Al contrario, invece, avendo la donna deciso di continuare il percorso di PMA e l’ordinanza del tribunale tutelato il diritto alla vita degli embrioni, l’uomo è obbligato alla paternità e sarà chiamato al riconoscimento e mantenimento del bambino che nascerà». Tali obblighi derivano dal consenso informato firmato per accedere alla PMA: in caso di gravidanza naturale, infatti, il padre non sarà mai costretto, contro la sua volontà, a riconoscere il figlio, né a provvedere al suo mantenimento.
Ma questa storia pare abbia tralasciato un aspetto molto rilevante: l’interesse del figlio che nascerà. «In che modo si tutela il minore che verrà alla luce in un contesto conflittuale e che, inevitabilmente, con il passare degli anni scoprirà che il padre non desiderava che nascesse?», chiede l’avvocato Costantini.
Il caso di Santa Maria Capua Vetere solleva, dunque, anche problemi di natura etica e morale. «Il consiglio della Siru – sottolinea la coordinatrice dell’Osservatorio giuridico della Società scientifica – è stato sempre di tentare una risoluzione dei conflitti alla presenza di uno psicologo, che possa aiutare la coppia a capire le motivazioni sottostanti al contrasto. Ed è questo che, a mio avviso, avrebbero dovuto fare anche gli ex coniugi di Santa Maria Capua Vetere prima di finire in un’aula di tribunale. Alla luce di quanto accaduto, pur avendo questa ordinanza una valenza limitata – continua Costantini – è giusto che le coppie, prima di accedere alla PMA, siano informate in modo dettagliato sulle regole vigenti e sui vincoli posti dal consenso che sarà necessario firmare».
Ma quella emersa dal conflitto della coppia di Santa Maria Capua Vetere è solo una delle tante lacune della legge 40. «Nella legge attuale è ancora previsto il divieto di crioconservazione degli embrioni, tranne in presenza di un comprovato problema di salute della donna – spiega l’avvocato -. Ma i centri di PMA, in accordo alle evidenze scientifiche raccolte in tutto il mondo, utilizzano abitualmente la crioconservazione come buona pratica medica. Per questo la Siru – conclude Costantini – ha redatto una proposta di modifica della legge 40 che tenga conto delle evidenze scientifiche più recenti e dell’attuale mutamento della coscienza sociale».
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