La referente Progetti dell’associazione umanitaria: «Sosteniamo i minori disabili, che rappresentano il 23% della popolazione. Offriamo assistenza, cure mediche e istruzione ad oltre 5 mila disabili del Camerun ogni anno, bambini spesso rifiutati non solo dalla comunità, ma anche dalle loro stesse famiglie»
Essere un bambino disabile in Camerun significa essere emarginato: è difficile nutrirsi adeguatamente, curarsi, ricevere assistenza, frequentare la scuola. In passato, i piccoli affetti da disabilità venivano addirittura accusati di stregonerie e malefici. Eppure, per chi li ha conosciuti hanno tutt’altro aspetto che quello di stregoni: «Sono bambini forti e coraggiosi – racconta Cecilia Calò, che si è personalmente presa cura di loro attraverso l’associazione Dokita -. Non potrò mai dimenticare quella insaziabile voglia di superare se stessi e i limiti imposti dalla loro disabilità. L’allegria e i sorrisi rimarranno per sempre impressi nella mia memoria, così come quei momenti in cui varcavo il cancello d’ingresso e i bambini, urlanti di gioia, mi correvano incontro e mi cingevano in un fortissimo abbraccio di gruppo».
La disabilità in Camerun colpisce oltre il 23% delle persone di età compresa tra i 2 e i 9 anni, bambini diversamente abili spesso a causa di malattie infettive come la polio, la malaria, la lebbra e soprattutto il morbillo (con il 63% di incidenza). Dokita, oltre che in Camerun, opera in altri 12 paesi del mondo, prestando soccorso, ogni anno, a più di 25 mila persone. Un impegno che con l’esplosione della pandemia si è ulteriormente intensificato. «È difficile gestire la sanità ordinaria per mancanza di strutture, personale, medicinali e presidi – racconta Cecilia Calò -. Figuriamoci una situazione di emergenza come quella scatenata dal Covid-19. I più poveri, che rappresentano la gran parte della popolazione, non hanno la possibilità di accedere né ai dispositivi di protezione individuale, né ai tamponi. Per questo, contagiati e deceduti sono sottostimati: non ci sono gli strumenti che permettano di valutare l’entità della pandemia».
Cecilia, 38 anni, viaggia regolarmente in Camerun dal 2012, prima come cooperante, poi come referente dell’ufficio Progetti. Durante le sue numerosi missioni ha prestato assistenza in tutti i centri Dokita della repubblica dell’Africa equatoriale che, ogni anno, aiutano complessivamente oltre 5 mila persone con disabilità. «Sono tutti dedicati all’accoglienza, alla cura e al sostegno scolastico dei bimbi con disabilità – spiega l’esponente dell’organizzazione umanitaria -, dal Foyer de l’Esperance di Sangmelima, che sostiene giovani con disabilità motorie e intellettive, al Foyer Père Monti di Ebolowa, che dal 1984 si prende cura di minori con disabilità nelle funzioni della voce, uditive, visive e dell’apparato motorio, fino al Centro Prohandicam di Yaoundé che gestisce una delle poche scuole per bambini ciechi in Camerun. Sono presenti sia insegnanti di lingua braille e dei segni, a seconda delle disabilità, che professionisti in grado di insegnare un mestiere ad ogni bambino, cosicché da adulto possa essere accolto e non rifiutato dalla società».
Cecilia Calò è stata diverse volte in Camerun, ma ad ogni viaggio ha provato le stesse emozioni, come se fosse il primo. «Ho dovuto fare i conti con un senso di impotenza, con la consapevolezza che pur offrendo tanto a questi bambini, attraverso l’impegno di Dokita e dei suoi donatori istituzionali e privati, non sembrava mai essere abbastanza (fino al 28 marzo è attiva la campagna sms solidale “Tutti Uguali”: per aiutare i bambini disabili basta inviare un sms o fare una chiamata da rete fissa al numero solidale 45580)». Ma, poi, osservando nel tempo il valore aggiunto che il suo operato individuale ha portato nella vita di molti bambini, ha provato una enorme soddisfazione: «Senza Dokita avrebbero vissuto un’intera vita di emarginazione – ammette Cecilia -. Questi bambini sono spesso rifiutati non solo dalla comunità, ma anche dalle loro stesse famiglie. E quando il loro percorso con noi giunge al termine e diventi spettatore del loro ingresso in società, allora capisci che pur non risolvendo i problemi di tutti – conclude – rendi davvero migliore la vita di tanti».
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