Lavoro e Professioni 24 Marzo 2021 16:31

L’ortopedia ai tempi del Covid, Grasso (Sicoop): «Il peggio è alle spalle. Ora conviviamo con le difficoltà del momento»

Il Presidente della Società Italiana Chirurghi Ortopedici dell’Ospedalità Privata ai microfoni di Sanità Informazione: «Molti colleghi chiamati a coprire altre mansioni. È dura rimettersi a leggere i libri dell’università per dare supporto ai pazienti»

L’ortopedia, così come le altre branche della medicina, è stata duramente colpita dall’arrivo del Covid-19. Ma se la situazione peggiore è ormai alle spalle, ad un anno di distanza dall’inizio della pandemia si è imparato a convivere con la situazione che stiamo vivendo. Sanità Informazione ne ha parlato con Andrea Grasso, Presidente Sicoop (Società Italiana Chirurghi Ortopedici dell’Ospedalità Privata).

Professore, com’è cambiata l’ortopedia in quest’anno di Covid rispetto alla situazione che c’era precedentemente?

«L’ortopedia è cambiata molto, soprattutto durante il primo lockdown. È stato un momento molto duro, soprattutto per i pazienti. Nella maggior parte delle Regioni, se non in tutte, sono stati bloccati i ricoveri in elezione. Ciò significa che potevano essere operati solo i pazienti che avevano un trauma, una frattura o patologie che non potevano essere differite. Piano piano l’elezione è stata reintrodotta. Successivamente c’è stata una fase in cui sembrava che tutto si fosse stabilizzato. Poi sono arrivate la seconda e la terza ondata. In questa fase non c’è stato un fermo così rigido come tra marzo e aprile. Abbiamo cercato di convivere con la situazione. Faccio l’esempio del Lazio, Regione in cui mi trovo, in cui è stato trovato un accordo per cui l’attività ortopedica in elezione nel pubblico è stata spostata presso strutture private o private accreditate. Si è cercato insomma di salvaguardare il paziente e di evitare di farlo entrare in ospedale, ovvero in un luogo più soggetto a rischi. In ogni caso, ora stiamo andando avanti. Stiamo continuando ad operare. Quel che logicamente cambia è l’atteggiamento del paziente. Ciò che però ci ha meravigliato durante il primo lockdown è la quantità di persone che continuavano a venire da noi per farsi visitare o perché disposti a farsi operare. Questo è stato molto importante. Sicuramente è stato merito anche dell’organizzazione delle strutture che si sono adeguate e hanno creato protocolli di sicurezza, grazie ai quali le persone si sentivano discretamente sicure».

Per quanto riguarda invece il personale, in questi mesi siete stati chiamati anche a svolgere mansioni che non erano strettamente legate alla vostra specializzazione?

«Sì, anche se devo dire che è questa cosa è accaduta maggiormente nelle aree più colpite, in particolare nella prima fase in cui, inevitabilmente, c’era molta impreparazione. So di tantissimi colleghi che in quella fase sono stati chiamati a dare una mano in aree che non erano di loro competenza, come la medicina interna, il reparto pneumologia e via dicendo. È stata molto dura».

Difficile perché essere spostati in un’area in cui le competenze della propria specializzazione c’entrano relativamente può essere anche un rischio?

«Sì, ma gli aspetti in questo caso sono due: c’è il discorso medico legale del rischio e un discorso personale. Il medico vuole aiutare ed essere utile alle persone che si affidano a lui. E come lo si diventa? Studiando e sapendo sempre cosa va fatto nell’interesse del paziente. Quando un medico si trova spiazzato e deve rispolverare i libri dell’università, questo senza dubbio crea delle difficoltà. Allo stesso tempo però è in situazioni del genere che viene fuori l’entusiasmo e la voglia di essere ancora più utili. Ci si fa in quattro per fare tutto».

 

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