Salute 3 Aprile 2021 11:55

Fame d’aria – Capitolo 13 (parte 3)

Su Sanità Informazione il racconto a puntate di una storia vera. Anzi, di più storie, di destini che si incrociano sulla spinta asfissiante di un virus che ci ha separati tutti

Fame d’aria – Capitolo 13 (parte 3)

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Quanti giorni erano passati? Una settimana, un mese? Poteva dirlo con precisione? In teoria, non era una domanda difficile. Bastava guardare sul calendario. Ma era troppo facile. Era quasi come barare. Da quanto tempo era chiuso in casa? Da quanto tempo non vedeva gli amici o la famiglia? Da quanto tempo non misurava più il passare del tempo dai ricordi di ciò che aveva fatto nei giorni precedenti, nella settimana o nel mese appena passato, e invece lo misurava contando ogni singolo secondo seduto alla sua scrivania davanti al pc? Da quanto tempo riguardandosi indietro non riusciva a distinguere un giorno dall’altro perché i giorni erano tutti uguali, tutti piatti allo stesso modo?

Se qualcuno gli avesse chiesto: “Da quanto sei qui? Quanti giorni fa è stato il 25 aprile? Quanti giorni fa è stato il primo maggio? Quando è stata l’ultima volta che hai sentito tua madre?”, non avrebbe saputo darsi una risposta. Il tempo era praticamente immobile. Neanche a dire che era lento, no. Fermo, piantato. Una cosa, un determinato fatto accaduto nel suo recente passato, per lui poteva essere successo tanto il giorno prima quanto un mese prima. Il tempo non passava in maniera lineare ma era formato da una serie di finestre temporali di 24 ore ciascuna che si accavallavano l’una sull’altra in maniera identica, indistinguibili l’una dall’altra.

Non che ci stesse male in quella situazione. Ma all’inizio, quando dissero che bastava qualche settimana di sacrificio per ridurre drasticamente i contagi e tornare alla normalità, ci aveva creduto. Come tutti. E la sensazione di far qualcosa di utile a sé e agli altri, qualcosa di storico, gli aveva dato una forza e una resistenza che non sapeva di avere. “Tutto sommato – pensava lui –, meglio stare un mese chiuso in casa che partire per la guerra. Un tempo i ragazzi come me venivano chiamati a ben altri sacrifici”. Meglio salvare il mondo seduti sul divano a guardare un film che andare al fronte, insomma.

Ma quelle settimane divennero mesi. Il morale era sottoterra, la gente sfibrata. E una volta che il virus sembrò quasi definitivamente sconfitto le persone scesero per strada come si fa quando l’esercito fino ad allora nemico viene a liberare un paese dall’oppressione di una dittatura e di una guerra. “Il virus è sconfitto, liberi tutti”, e tutti si liberarono.

Ma lui no. Lui non ci credeva. Li guardava dalla finestra inondare le strade come il liquame che esce da una fognatura scoppiata. Non erano singole persone ma una massa informe. “Sono pazzi – si diceva –. Come fanno a non capire? Maledetti, ma vi è davvero così dura stare in casa vostra con la vostra famiglia? Quale grosso sacrificio siete stati chiamati a fare in questi mesi? Vi hanno tolto il cibo da tavola e dalle dispense? Vi hanno razionato il pane? Vi hanno lasciati morir di sete? Vi hanno tolto il tetto da testa? No, niente del genere. Semplicemente, non vedevate l’ora di fuggire da quelle gabbie che vi siete creati da soli e che chiamate casa e famiglia. Dite la verità. Avete capito che uscire di casa non è un diritto ma una concessione, e questo lo comprendo. Capisco la voglia di aria pulita. Ma la guerra non è vinta. Come fate a non vederlo? I virus tornano, sembrano sconfitti ma semplicemente si nascondono. Il virus c’è ancora, ci riaprono perché continuare con il lockdown è economicamente insostenibile e non perché siamo fuori pericolo. Pensate di poter tornare a far quello che facevate prima, a parlare a due centimetri dalla bocca di un altro, a baciare gente diversa sulle guance, a tornare a casa dopo aver toccato di tutto e non lavarvi le mani, a fare tutto quel che facevate prima e anzi più di prima, visto che per un po’ non avete potuto farlo. Pensate che tutto sia diventato solo il vostro passato ma riparliamone quando ci sarà una seconda ondata. Quando gli ospedali si intaseranno di nuovo. Quando ci richiuderanno dentro casa ancora una volta e ancora una volta usciremo solo per comprare roba da mangiare. Riparliamone quando il lievito diventerà di nuovo introvabile e sugli scaffali resteranno ancora una volta solo le penne lisce. Riparliamone quando per andare a fare la spesa dovrete fare file di due ore. Riparliamone quando i vostri figli ricominceranno a studiare da casa, davanti ad un pc e senza nessuna amichetta da prendere in giro per farle capire che gli piace o un compagno con cui scambiare le figurine o giocare a pallone. Riparliamone quando vi accorgerete di non sentire più né gli odori né i sapori. Riparliamone quando perderete il lavoro perché non potremo reggere economicamente un secondo lockdown. Riparliamone quando tutto quel che è stato tornerà e in maniera ancora più pesante. Quando non avrete la forza per affrontare ancora una volta la tremenda, terribile sfida di stare in casa con la vostra famiglia. Eppure, potreste fare qualcosa ora, uscire sì ma con intelligenza, con raziocinio, con prudenza. Non è detto che se una persona rimane a digiuno per due giorni il terzo questa debba per forza strafogarti fino a crepare. Pensate già che sia tutto alle spalle, idioti… Pensate sia già tutto solo un ricordo. Riparliamone, poi. Io vi aspetto…”.


17 agosto 2020

Lorenzo arrivò al bed & breakfast verso mezzogiorno. Per entrare doveva superare un grosso cancello verde che separava la strada principale (quella che portava al centro di Acciaroli) dalla stradina sterrata e in salita che conduceva ad un piccolo complesso di costruzioni basse. Arrivato davanti al cancello, telefonò alla proprietaria e si fece aprire. Lei, una ragazza di circa 30 anni, lo accolse dandogli il benvenuto senza avvicinarsi, nonostante portassero entrambi la mascherina. Gli spiegò come funzionavano le cose lì, a che ora avrebbero servito la colazione, che poteva chiedere quando voleva una pulizia completa della camera e così via.

Di solito Lorenzo ad Acciaroli ci andava con la famiglia che prendeva in affitto una specifica casetta, sempre la stessa, da più di vent’anni. Nell’estate del Covid, però, i proprietari risposero che non potevano più permettersi di affittare metà mese a causa delle grosse spese di sanificazione da impiegare ogni qual volta una famiglia lasciava l’appartamento: “Signora, quest’anno o un mese intero o niente, ci dispiace”. Così la sua famiglia aveva rinunciato alle vacanze. Lui, però, di quella settimana fissa e imprescindibile (che spezzava con nettezza l’anno precedente da quello successivo così come l’intervallo separa il primo dal secondo tempo di una partita di calcio) non avrebbe mai fatto a meno. Per lui tornare in quel posto in cui andava da quando era nato significava voltare pagina, ricaricarsi delle forze necessarie per poter affrontare un nuovo anno di impegni e lavoro. Senza, non ce l’avrebbe mai fatta. Doveva rifiatare, proprio come un calciatore che negli spogliatoi si prepara a tornare in campo per altri quarantacinque minuti.

Si disinfettò le mani con uno dei tanti dispenser messi qui e lì a disposizione di tutti i clienti ed entrò in camera. Il tempo di darsi una sciacquata, di infilarsi il costume, di andare in salumeria a farsi fare un panino per pranzo e scese in spiaggia.

La folla che gli si parò davanti era la stessa, identica, degli altri anni. Apparentemente, non una persona di meno. Gli ombrelloni degli alberghi e degli stabilimenti non gli sembrarono più distanziati rispetto alle estati precedenti. Per quanto riguarda la spiaggia libera, invece, il comune aveva infilato nella sabbia dei tubi di gomma all’interno dei quali i bagnanti avrebbero dovuto infilare l’ombrellone, in modo tale da tenerli il più possibile distanziati.

Le persone in spiaggia si comportavano esattamente come gli altri anni. Nessuno portava la mascherina, in tanti prendevano il sole su lettini letteralmente attaccati gli uni agli altri, i bambini si rincorrevano senza pausa, amici che si rincontravano dopo tanto tempo si abbracciavano, altri si passavano bottiglie di birra o spinelli, altri ancora giocavano a racchettoni, a pallavolo o si palleggiavano un Super Santos con i piedi per poi calciarlo verso un compagno in acqua che avrebbe dovuto provare a pararlo tra due canne di bambù piantate nella sabbia a mo’ di porta. Tutto identico alle atre estati.

Lorenzo passò in mezzo a quella folla, ben attento a non avvicinarsi troppo a nessuno e con la mascherina ancora aggrappata al viso. Era l’unico a portarla. Si sentì un po’ ridicolo ma pensò che sarebbe stato ancor più ridicolo togliersela perché non la portava nessuno. Che stesse esagerando? D’altra parte, i contagi di quei giorni erano bassissimi e avrebbe anche potuto rilassarsi cinque minuti dopo tanti mesi di attenzioni assillanti.

I lidi erano come sempre stracolmi di persone che facevano la fila per andare in bagno o per ordinare da bere e che bevevano al bancone o mangiavano qualcosa seduti ai tavolini. Ricordò di quando si parlava di plexiglass attorno agli ombrelloni e ai lettini, di plexiglass a separare le persone sedute ai tavoli, di spiagge a numero chiuso o ad ingressi scaglionati, di giochi vietati sul bagnasciuga, di nuotatori con le mascherine anche in acqua, di alberghi a mezzo servizio, di spiagge vuote perché il virus (all’epoca) faceva tanta paura e nessuno voleva correre il rischio di ammalarsi.

Mentre camminava con passo sempre più svelto guardò le file interminabili di lettini e sdraio disposti l’uno accanto all’altro a pochi passi dall’acqua e ricordò (ma a questo punto non ne era neanche più tanto sicuro, probabilmente aveva immaginato tutto quel che era successo solo fino a poche settimane prima) che qualcuno gli aveva detto che quell’anno non avrebbe fatto vacanza perché stare in spiaggia a quelle condizioni, quelle che sembravano così imprescindibili per poterla frequentare anche solo per un giorno, un weekend o una settimana, erano assolutamente impraticabili. “Dici? Io penso che sarà tutto uguale alle altre estati”, gli aveva risposto. Ci aveva azzeccato, per una volta.

Vide da lontano i suoi amici. Li salutò con la mano. Gli altri gli si avvicinarono per un saluto molto più fisico, materiale, felici di riaverlo tra loro dopo così tanto tempo. Chi voleva dargli un bacio sulle guance, chi voleva abbracciarlo, chi voleva almeno stringergli la mano. Cercò di evitare per quanto possibile questo tipo di effusioni ma non ci riuscì. Per una volta si abbandonò agli altri e, un po’ contrariato ma anche fiducioso che, tutto sommato, non stesse facendo nulla di male (di strappi alle regole se ne era sempre concessi tanti, in tutta la sua vita), baciò ed abbracciò gli amici di una vita che non vedeva da un anno intero.

Fece il bagno con loro, andò sul lido a bere birra e mangiare patatine con loro, giocò a carte e a bigliardino con loro, la sera uscì con loro, a fare aperitivo e cena con loro, a fumare con loro, a sedersi sulle panchine o sui muretti a chiacchierare con loro, a frequentare locali che (sebbene proprio a partire da quel giorno, il 17 agosto, le discoteche venissero chiuse per legge) facevano entrare gente a non finire e sparavano la musica a palla e tutti bevevano e ballavano e si abbracciavano e si baciavano come si fa nelle discoteche (con l’unica differenza che quei locali, che avrebbero dovuto chiudere alle due di notte ma che non lo facevano, erano all’aperto e non potevano essere effettivamente classificate come discoteche).

I giorni successivi quei ragazzi avrebbero affittato tre gommoni e navigato per tutta la costiera cilentana. Si sarebbero passati di bocca in bocca birre, cibo e sigarette. Avrebbero ballato insieme sulla musica sparata da un altoparlante collegato ad un cellulare. Nessuno aveva più paura. Nessuno ci provava nemmeno più ad essere prudente. Era tutto passato. Tutto dimenticato. E anche lui, Lorenzo, un tempo cauto nel lasciarsi coinvolgere dal panico generale che montò quando due cinesi in vacanza a Roma vennero trovati positivi, anche lui, successivamente tra i più coscienziosi e diligenti nel rispettare le regole che qualcuno (chi ne sapeva molto più di lui) aveva dettato per limitare il più possibile il contagio, anche lui, che anche quando la città intera si riversava in strada perché affamata d’aria restava in casa, insomma anche Lui, Lorenzo, una persona parecchio restia a farsi portare via dalla corrente, dopo tanta resistenza si arrese e si lasciò andare. “Forse mi sbagliavo. Il pericolo è alle spalle. Ora godiamoci la vita. Ritorniamo a respirare”.

Il resto della storia è oggi.

 

fine…

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