Salute 9 Aprile 2021 12:45

Studio Tsunami, il plasma non riduce rischio di peggioramento o morte dei malati Covid

Intervista al coordinatore dello studio Francesco Menichetti: «Debole segnale di vantaggio solo in pazienti senza grave insufficienza respiratoria»

di Federica Bosco
Studio Tsunami, il plasma non riduce rischio di peggioramento o morte dei malati Covid

Le speranze riposte nel plasma iperimmune come cura anti-Covid escono ridimensionate dallo studio Tsunami. Promosso da Aifa e dall’ISS e realizzato su 487 pazienti in 27 centri clinici su tutto il territorio nazionale, lo studio ha messo a confronto l’effetto del plasma convalescente ad alto titolo di anticorpi neutralizzanti (1:160) associato alla terapia standard con quella tradizionale in soggetti con Covid-19 e polmonite con compromissione ventilatoria da lieve a moderata (definita da un rapporto PaO2/FiO2 tra 350 e 200). Il quadro non ha evidenziato differenze sostanziali, come ha confermato il professor Francesco Menichetti, direttore del reparto di malattie infettive dell’ospedale di Pisa e coordinatore dello studio.

«Nessun segnale positivo, l’unica eccezione è che nel gruppo di pazienti senza una grave insufficienza respiratoria abbiamo riscontrato un debole segnale di vantaggio. Questo in qualche modo conferma i dati della letteratura americana che raccomandano comunque di utilizzare un plasma convalescente ad alto titolo idealmente entro i primi tre giorni del ricovero in chi è ancora all’inizio della polmonite e non ha un’azione compromissoria importante. Ma questi dati andrebbero validati da un ulteriore studio randomizzato».

Pochi elementi avversi, ma non è risolutivo

Pochi elementi avversi, come reazioni trasfusionali modeste «nessuna pericolosa o letale» puntualizza, «qualche linea di febbre e rash cutaneo rilevati in maggior misura tra coloro che hanno avuto il plasma convalescente rispetto al gruppo di controllo». Un profilo di sicurezza accettabile, ma la risposta non è stata risolutiva. Eppure, il professor Menichetti ritiene che il plasma abbia evidenziato un beneficio in termine di riduzione del rischio di peggioramento o di morte solo in una precisa finestra temporale.

«Il plasma convalescente, specialmente ad alto titolo anticorpale, se utilizzato in pazienti che sono all’inizio della malattia e hanno una polmonite lieve e moderata, può essere di giovamento – rimarca Menichetti -. Questo è sostenuto non solo dalla letteratura pubblicata, ma anche dalle linee guida americane rese note lo scorso 9 marzo secondo cui si raccomanda l’uso del plasma solo a queste condizioni. Non ha più senso continuare a darlo a persone già ventilate meccanicamente, che hanno una grave insufficienza respiratoria, perché non c’è alcun segnale di beneficio».

Plasma e anticorpi monoclonali, quali differenze

Anche per il plasma, come per gli anticorpi monoclonali, la tempistica dunque è fondamentale. Ma i contesti sono diversi, come ha puntualizzato lo stesso primario di malattie infettive dell’ospedale di Pisa: «Gli anticorpi monoclonali sono ideali per i pazienti ambulatoriali, non ricoverati, mentre il plasma convalescente è da utilizzare nel malato già ospedalizzato, ma ancora nelle prime fasi del virus. Sono ambedue precoci: una però è la terapia dell’infezione precoce che ha l’obiettivo di evitare l’aggravamento e quindi la necessità di ospedalizzazione; l’altra, con il plasma convalescente, va somministrata al paziente già ricoverato per evitare il peggioramento respiratorio e la morte».

Allo studio il primo anticorpo monoclonale italiano

Se lo studio sul plasma iperimmune come cura anti-Covid non ha dato gli esisti sperati, anche gli anticorpi monoclonali di prima generazione potrebbero essere superati. E per contrastare le nuove varianti si guarda avanti. «Va tenuto in considerazione che gli anticorpi monoclonali approvati da AIFA sono gli stessi autorizzati quattro mesi prima da FDA, ovvero Ely Lilli e Regeneron di Roche – aggiunge Menichetti -. Sono gli stessi che hanno salvato Trump e che ora si trovano in un contesto epidemiologico diverso, perché oggi abbiamo non più un virus originale o la variante 614, ma altre su cui gli anticorpi potrebbero aver perso parte della loro efficacia».

«Se la forza degli anticorpi monoclonali pare la stessa sulla variante inglese, probabilmente non lo è sulla sudafricana e sulla brasiliana. In particolare, quest’ultima comincia ad avere un certo rilievo alle nostre altitudini: si stima un 4% di incidenza al nord, mentre al centro questa può raggiungere anche un 10-20%. Quindi stiamo aspettando con ansia di valutare i primi anticorpi monoclonali prodotti in Italia a cui sta lavorando Rino Rappuoli, coordinatore scientifico del MAD Lab della Fondazione Toscana Life Sciences».

 

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