Salute 19 Aprile 2021 12:12

Riaperture, Vergallo (Aaroi-Emac): «Pressione terapie intensive ancora importante. Bilanciare esigenze di salute con economia»

Il Presidente dell’Associazione anestesisti rianimatori ospedalieri: «Le decisioni spettano alla politica ma devono seguire, con criteri di prudenza, la scienza e la situazione attuale del SSN. Un’ondata successiva, a distanza di qualche mese, sarebbe ancora più pericolosa delle precedenti perché si aggiungerebbe a un numero esistente di contagi e ricoveri e non a un valore soglia pari a zero»

Riaperture, Vergallo (Aaroi-Emac): «Pressione terapie intensive ancora importante. Bilanciare esigenze di salute con economia»

Il Governo ha annunciato la ripresa delle attività all’aperto dal 26 aprile, con gradualità. Riapriranno le scuole di ogni ordine e grado in presenza, i ristoranti anche a cena, riprenderanno alcune attività sportive, cinema e spettacoli saranno consentiti all’aperto, al chiuso con limiti di capienza.

Nell’intervista a Sanità Informazione e in vista delle riaperture, Alessandro Vergallo, Presidente nazionale dell’Associazione anestesisti rianimatori ospedalieri Aaroi-Emac ha affrontato a tutto tondo l’attuale situazione italiana.

Presidente, il ministro Speranza si è appellato al senso di responsabilità di tutti sulla scia degli avvertimenti e raccomandazioni che arrivano dai medici. Qual è il vostro pensiero?

«Il nostro pensiero è basato sulla situazione in cui versano ancora gli ospedali, in particolare le terapie intensive. Al momento in cui siamo, sulla base dei dati, potrebbe essere iniziato il famoso punto di flesso della terza ondata a cui seguirà, poi, una discesa il più rapida possibile. Tuttavia, la pressione sulle terapie intensive si sta allentando più lentamente rispetto ai ricoveri ospedalieri: siamo a poco meno di 3500 posti di terapia intensiva-rianimazione occupati, che rispetto alla reale disponibilità di posti – non a quella che leggiamo sul portale Agenas che annovera posti di ogni ordine e grado – è ancora superiore al 45%. Per questo sulla base dei dati diciamo che non siamo affatto in una situazione di tranquillità, anche perché mentre nella prima ondata dello scorso anno la diffusione dei contagi era limitata ad alcune regioni oggi è diffusa su tutto il territorio nazionale. Questo significa che bastano minime variazioni di questi numeri per provocare a cascata una pressione ospedaliera che rischia di nuovo di aggravarsi. Siamo convinti che esistano delle motivazioni economiche sempre più pressanti per far riprendere le attività lavorative, scolastiche e produttive dello Stato, però a questo punto bisogna essere chiari. Concordiamo con il ministro Speranza sul fatto che le aperture debbano obbligatoriamente essere graduali e proprio a proposito di queste gradualità diciamo che sono decisioni che spettano alla politica ma devono seguire, con criteri di prudenza, la scienza e la situazione attuale del SSN. Un’ondata successiva, a distanza di qualche mese, sarebbe ancora più pericolosa delle precedenti perché si aggiungerebbe a un numero esistente di contagi e ricoveri e non a un valore soglia pari a zero».

Un rischio ragionato?

«È chiaro che così come non esiste il rischio zero in medicina non esiste il rischio zero neanche nel prendere decisioni politiche. La cosa che ci conforta è che proprio il ministro Speranza abbia delineato, nei suoi interventi, l’esigenza di un bilanciamento fra le esigenze di sicurezza della salute pubblica rispetto a quelle di sopravvivenza e rilancio dell’economia».

È vero che si è abbassata, ulteriormente, l’età media dei ricoverati in terapia intensiva?

«Sì, l’età media si è abbassata di circa una decina di anni, siamo al di sotto del 60esimo anno anagrafico. Tuttavia, la distribuzione anagrafica dei ricoverati in terapia intensiva è sempre molto ampia e abbraccia diverse decadi. Non ci pare cambiata in maniera statisticamente significativa l’anagrafe dei decessi; abbiamo assistito a una variazione solo di pochi mesi dei pazienti deceduti. Questo significa che arrivano in ospedale e anche in terapia intensiva pazienti più giovani di cui una parte, purtroppo, muore, ma la gran parte dei pazienti più giovani ovviamente – in assenza di patologie concomitanti rispetto agli anziani – ha più chance di sopravvivenza, così come lo scorso anno».

Qual è stato l’impatto delle varianti sulla mortalità?

«Dai primi dati, non sembra che le varianti abbiano causato un aumento di mortalità significativo ma un incremento della contagiosità e quindi, a cascata, del verificarsi di sintomi gravi per cui è necessario il ricovero ospedaliero, anche in rianimazione».

Perché in Italia ci sono ancora così tanti morti ogni giorno?

«Per due motivi: il Covid-19 è una patologia che non ha perso nessuna delle sue caratteristiche di gravità nei pazienti sintomatici né di evoluzione molto rapida e per cui non esiste una terapia specifica. Bisogna dire chiaramente che non c’è un farmaco per combattere la malattia una volta che già è insorta. Ci tengo a dirlo perché siamo stanchi di tutti coloro che si svegliano al mattino piuttosto che alla sera e propagandano famose terapie efficaci che, di fatto, non hanno dimostrato scientificamente una validità sufficiente. Parlo del plasma iperimmune che doveva essere miracoloso, delle terapie domiciliari che nessuno sa quali siano tranne quelle certificate dal ministero e degli anticorpi monoclonali. In questi giorni se ne parla come se fossero la panacea, in realtà sappiamo tutti benissimo che questa classe di farmaci ha delle indicazioni estremamente limitate che possono intervenire in casi specifici ma che non rappresentano la soluzione al Covid-19 una volta che la malattia si è instaurata nell’organismo. Al momento, l’unica speranza che ci sentiamo di poter condividere arriva dai vaccini, dato che sul farmaco siamo ancora ben lontani da poter sperare che ci siano novità interessanti».

La strategia britannica sui vaccini funziona?

«Sembra essere una scommessa vincente ma, di fatto, disattende le indicazioni scientifiche. Ha fatto una scelta statistica e politica; in un momento in cui i vaccini sono pochi per tutti, ha deciso di somministrare il più possibile la prima dose con una copertura del 50-60% a discapito dell’intervallo di sicurezza tra la prima e la seconda che permette di arrivare a una copertura del 95%».

Quindi lei è contrario ad allungare i tempi tra la prima e la seconda dose dei vaccini a mRNA?

«Noi siamo abituati a basarci su ciò che dice la scienza. Per raggiungere un’efficacia del 95% nei vaccini bi-dose servono le due dosi intervallate rispettivamente a 21 o a 28 giorni parlando rispettivamente di Pfizer e Moderna. In caso contrario, ci si ferma a un’efficacia tra il 50-60%. È evidente che sotto il profilo statistico scommettere su un’estensione massiva della prima dose siamo convinti sia una scelta che paghi in termini di contenimento dei contagi e l’Inghilterra, al momento, ne è la dimostrazione. Non sappiamo però se questa scelta si rivelerà vincente rispetto a quella di rispettare strettamente i tempi delle due dosi nel medio lungo periodo».

Le priorità della campagna di vaccinazione: prima gli anziani e i fragili, poi le altre categorie. È d’accordo?

«È una scelta di politica sanitaria: l’ideale sarebbe avere 60 milioni di vaccini ma a fronte di una penuria di risorse la politica deve operare sulla base della scienza e delle spinte economiche. Vaccinare in prevalenza la popolazione anziana, soprattutto gli ultraottantenni – i più colpiti in termini di letalità – e fragile risponde sia a criteri di appropriatezza sotto il profilo sanitario, sia a criteri etici. Poi ci sono i problemi che riguardano le attività produttive svolte da persone più giovani che si ammalano di meno, sviluppano sintomi meno gravi ma sono anche una fonte importante di diffusione del contagio. A fronte di queste due esigenze noi siamo per una soluzione di compromesso: le fasce a rischio devono avere la priorità, la ripresa della circolazione per quanto graduale è necessaria ma comporta un maggior rischio di ripresa dei contagi. I virus risentono dell’andamento stagionale; questo ci lascia ben sperare, ma non va ripetuto il grossolano errore dello scorso anno quando i cittadini non sono stati prudenti per precisa responsabilità di quegli scienziati che erano andati in TV a dire che ere tutto finito e che il virus era sparito».

La sfiducia nei vaccini a vettore virale potrebbe provocare ulteriori problemi?

«Siamo in attesa come tutti di capire come gli enti regolatori si pronunceranno in via definitiva su Johnson&Johnson. Siamo concordi sulla maggiore efficacia dei vaccini a mRNA perché sono tecnologicamente più avanzati, ma ci ha lasciato sinceramente perplessi come clinici e professionisti una certa altalena di reclamazione di affidabilità su AstraZeneca. Avremmo preferito che il tempo trascorso ci avesse condotto a una maggiore uniformità di vedute dal mondo strettamente scientifico, invece è passato da un rischio basso inesistente a significativo con tutte le variazioni del genere. La produzione dei vaccini è stata estremamente rapida e di questo possiamo soltanto essere soddisfatti ma ci aspettavamo una voce più univoca, che ci dicessero per esempio “è un rischio statisticamente rilevato ma accettabile rispetto al beneficio” piuttosto che invece viceversa “è un rischio troppo alto quindi lo sospendiamo”. Ecco, questa altalena di opinioni non ha giovato alla percezione che la popolazione ha sulla sicurezza di questa campagna vaccinale, è il danno maggiore».

L’effetto vaccini si inizia a intravedere negli ospedali?

«No. Siamo ancora lontani da una prevalenza di persone vaccinate che possa lasciarci credere che i vaccini abbiano già un’efficacia sul piano statistico e sui contagi. La quasi totalità dei professionisti sanitari è stata vaccinata e la diminuzione dei contagi tra loro ci lascia ben sperare che, una volta vaccinato il 50% della popolazione italiana, i miglioramenti sul contenimento pandemico saranno evidenti».

 

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