Pochissime persone affette che rischiano di perdersi perché nessuno li conosce. I malati di Huntington non posso essere dimenticati, per la mole delle loro necessità e per l’urgenze delle richieste. Ne parliamo con la senatrice Binetti (pres. Intergruppo Malattie Rare)
Si presenta in età adulta e cambia completamente l’esistenza di chi ne è affetto, la malattia di Huntington è una realtà per 6.500 persone in Italia e per le loro famiglie. Definita come l’insieme di Parkinson, Alzheimer e Sclerosi laterale amiotrofica è una patologia a base genetica di cui si deve e si può parlare di più.
Con questa intenzione l‘Osservatorio italiano Malattie Rare (Omar) ha organizzato la presentazione del Libro bianco della malattia di Huntington. Al suo interno 30 autori sono stati coinvolti nel racconto della patologia e nella gestione delle richieste sempre più urgenti di pazienti e caregiver. Sanità Informazione ha svolto un approfondimento con la senatrice Paola Binetti, presidente dell’intergruppo parlamentare Malattie rare e strenua sostenitrice della battaglia per una vita più bella dei pazienti rari.
«Il primo obbiettivo che con l’intergruppo Malattie Rare ci siamo sempre dati – ci spiega – è che non si confonda la rarità della malattia con la mancanza di conoscenze intorno alla malattia. L’obbiettivo di far conoscere la patologia è quello di aiutare le persone a sapere che quando qualcuno le guarda non ha pregiudizi nei loro confronti, ma solo l’attenzione affettuosa e la disponibilità positiva di chi probabilmente vorrebbe rendersi più utile di quanto riesca a fare».
Essere visibili, essere conosciuti. Perché è così importante? Quando si ha una malattia rara lo è sempre per non sentirsi soli, ma nel caso della Corea di Huntington acquisisce un ulteriore significato. Essendo una malattia genetica che si presenta in età adulta, il paziente assiste alla propria perdita progressiva di capacità e autonomia. Rischiando di cadere in un baratro di solitudine ancora più profondo rispetto ad altri pazienti, consapevole che presto si potrebbe diventare “un peso”.
«Dobbiamo lavorare in maniera importante sull’accettazione di questa situazione da parte delle persone e dei caregiver – concorda Binetti -. È fondamentale che il caregiver sappia come intervenire e non negare i sintomi e il disagio che provoca, e nello stesso tempo offrire le alternative e le misure compensative. Dare senso a questo disagio rilanciandolo positivamente verso altri orizzonti che gli permettono di convincersi che la loro vita ha un senso. Che la loro intelligenza conserva una freschezza che permette di affrontare nuovi problemi e contesti».
Migliorare la vita di queste persone è una possibilità concreta, che può cominciare da una maggiore conoscenza della patologia, ma deve necessariamente passare attraverso degli investimenti. «C’è bisogno – spiega Binetti – di fare investimenti importanti e significativi sul piano della ricerca: non solo per capire il meccanismo eziopatogenetico, come si crea e si scatena, ma anche quali possono essere i farmaci capaci di intervenire per controllare prima più e meglio i sintomi che ci sono. La ricerca è essenziale per capire come e perché procede la malattia. C’è qualcosa che potremmo fare per rallentare il grilletto, il trigger che la scatena? La ricerca farmacologica è fondamentale perché tutti viviamo nell’utopia di trovare il farmaco risolutivo».
Un aiuto economico, infine, «non è una cosa irrilevante». «Abbiamo bisogno di dare a persone che sono ancora più in difficoltà degli altri quell’autonomia economica che gli permetta di non sentirsi di peso anche su questo profilo per la propria famiglia. Ci piacerebbe avere tra i modelli organizzativi, dei centri d’eccellenza a cui un paziente possa rivolgersi e sentirsi preso in carico davvero nella pluralità dei suoi bisogni che sono fisici, psicologici e sociali», conclude la senatrice.
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