di Maurizio Ferri, Responsabile Scientifico SIMeVeP e Paola Romagnoli, Veterinario Ufficiale ASL Roma1
Sulla strategia di gestione dell’emergenza pandemica COVID-19, in molte dichiarazioni pubbliche di esponenti delle associazioni professionali mediche emerge l’assenza di una visione olistica-globale e di relazioni multi-sistemiche che sono alla base di un modello sanitario ispirato alla cultura One Health. Questa si fonda sull’integrazione coordinata e trasparente delle professionalità che operano in settori diversi della sanità pubblica, ma che condividono gli stessi interessi ed obiettivi sanitari. Una sua assenza determina a livello periferico (regioni e dipartimenti di prevenzione delle ASL), e ciò non costituisce una novità, contesti organizzativi caleidoscopici con forti eterogeneità e separazione degli assetti istituzionali e con anacronistiche polarizzazioni sulle competenze mediche.
È evidente che su siffatta situazione pesano la mancanza di una volontà istituzionale per la promozione di una cultura di sanità pubblica ed ambientale in chiave preventiva One Health e di un linguaggio comune che possano aiutare a svelare la rete complessa di interazioni tra persone, animali selvatici e domestici, agricoltura e ambiente.
Uno studio della Banca Mondiale, successivo ai focolai epidemici di MERS del 2012, ha stimato che ogni dollaro investito in un approccio One Health potrebbe generare benefici per un valore di cinque dollari, pertanto, un investimento globale di 25 miliardi di dollari in 10 anni creerebbe un beneficio di almeno 125 miliardi di dollari. La promessa dell’approccio One Health non è solo quella di gestire le malattie prima che si diffondano, ma anche di affrontare le condizioni sottostanti che le producono. Difatti, la comprensione della genesi di COVID-19 e la prevenzione e il controllo delle malattie infettive emergenti con potenziale pandemico, devono partire da una conoscenza più ampia dell’ambiente e degli ecosistemi. Ovviamente l’approccio sanitario riduzionista, fondato sui tradizionali strumenti biomedici per individuare ‘le prove’, non è sufficiente e deve essere integrato attraverso una relazione più ampia con l’ambiente e i fattori socioeconomici correlati. E qui si innesca un ulteriore passaggio culturale che propone una convergenza metodologica tra One Health, dominato dalle discipline veterinarie e mediche, ed Eco-Health che dedica un’attenzione maggiore alle più ampie relazioni tra la salute e gli ecosistemi proponendo il coinvolgimento di altre figure professionali, come sociologi, ingegneri, esperti ambientali, economisti, esperti di fauna selvatica.
Con questa prospettiva, anche al netto dell’allineamento delle risorse professionali richieste, poco potranno fare gli interventi strutturali previsti dal PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) nell’ambito del programma di finanziamento straordinario comunitario Next Generation, creato per il rilancio della sanità pubblica e per riparare ai gravi danni sociali ed economici causati dalla pandemia. A tale proposito ricordiamo che su questo tema, all’interno del Programma Horizon 2021-2027 sono previsti finanziamenti comunitari per progetti multidisciplinari di ricerca e sviluppo tecnologico.
Se guardiamo agli obiettivi sanitari ambiziosi del PNRR (un totale 20,23 miliardi è assegnato alla sanità), attraverso la lente dell’attuale emergenza pandemica e di quelle future, il successo di un progetto di riforma serio e complessivo ed il previsto rafforzamento della componente del SSN relativa alla ricerca sanitaria (seconda componente della missione 6, con 520 milioni di fondi per la ricerca), dipendono proprio dall’integrazione tra tutte le professioni delle life e social sciences. Esse svolgono un ruolo fondamentale ed abilitante per gli outcomes previsti, specie se combinato alla creazione di centri di ricerca di eccellenza medici e veterinari che dovranno superare la modalità silos ed iniziare ad operare in rete ed a scambiare ed incrociare dati e metadati.
In sostanza, il rilancio della sanità previsto dal PNRR per i diversi livelli della relativa filiera, comprensivi a ragione delle attività di prevenzione umana primaria, diagnosi, e cura (es. assistenza di prossimità e telemedicina, innovazione, ricerca e digitalizzazione dell’assistenza sanitaria, potenziamento delle attrezzature ospedaliere, ricerca scientifica, trasferimento tecnologico e preparazione dei medici), non sembra assicurare progetti integrati e programmi centralizzati di previsione pandemica, ma tende ad essere focalizzato sulla risposta. Non si tiene conto che con il 60% delle infezioni umane trasmesse da animali (zoonosi), la prevenzione della salute umana si basa anche in larga misura sulla prevenzione e controllo delle infezioni animali. L’insegnamento avuto da questa pandemia COVID-19 e dalle precedenti minacce biologiche è da una parte la necessità di intensificare la sorveglianza virale nell’interfaccia animale-uomo, tanto più se si considera una distribuzione geografica dei virus SARS-CoV-2-correlati molto più ampia di quanto ritenuto fino ad oggi, e dall’altra di assicurare l’accesso ai dati in tempo reale con l’integrazione periferia-centro dei relativi flussi.
Il potenziamento delle attività di sorveglianza di SARS CoV-2, delle sue varianti e dei coronavirus simili, attraverso il sequenziamento genomico integrato uomo-animale, in chiave predittiva, consentirà di:
– conoscere la diversificazione e l’impatto in sanità pubblica della circolazione di virus con potenziale epidemico o pandemico;
– intercettare i segnali di spillover in aree a rischio con stretta interfaccia serbatoio animale-uomo
– costruire le mappe di rischio regionali e nazionali.
Quanto sopra è ancora più rilevante se si ipotizza che la diversità e la natura generalista dei Sarbecovirus, sottogenere a cui appartiene SARS-CoV-2, possono determinare uno scenario sconfortante a seguito di un ulteriore e potenziale salto di specie dei coronavirus associato ad un evento di ricombinazione con SARS-CoV-2 e all’emergenza di un nuovo ‘SARS-CoV-3’, sufficientemente divergente dal punto di vista genomico tanto da eludere entrambe le immunità, naturale o acquisita da vaccino, come è avvenuto per SARS-CoV-1 versus SARS-CoV-2.
Il progetto di riforma del PNRR non prende in considerazione la necessità di creare una governance per le attività di preparedness e di risposta olistica di una emergenza pandemica. Inoltre, il timeframe concesso (5 anni) è troppo breve perché possa svilupparsi una cultura necessaria a tale governance. E tale criticità si riscontra nella Sanità Italiana per l’assenza di un processo decisionale basato sul coordinamento tra i vari attori del sistema, per spinte regionalistiche che spesso intralciano una gestione armonizzata dei programmi integrati di sorveglianza epidemiologica e per la mancanza di centri nazionali di ricerca e studio.
A riguardo, la pandemia ha fatto emergere la necessità, cruciale per la sicurezza nazionale, di realizzare operazioni trasversali alle professionalità sanitarie, modernizzare il sistema di allerta e costruire un centro di intelligence epidemica o pandemica, in grado di identificare rapidamente un nuovo virus (o una variante di SARS CoV-2) sia nell’uomo che nelle specie animali recettive, mapparne la traiettoria e bloccarlo. Detto centro, quando non si verificano focolai o epidemie e dunque in tempo di pace, lavorerebbe per la ricerca e sviluppo dei migliori modelli da impiegare in tempo di crisi, con ottimizzazione delle risorse di sanità pubblica ed interventi di risposta efficaci, sostenibili ed a basso costo.
Se guardiamo oltreoceano al piano statunitense Rescue plan di resilienza e di risposta alla pandemia COVID-19, corrispettivo del nostro PNRR, vediamo che il presidente Biden, per contrastare l’indebolimento dell’intera catena di comando della risposta alla pandemia voluto dalla precedente amministrazione Trump, ha chiesto un aumento del finanziamento di 1,6 miliardi di dollari per il CDC (Centro per il controllo e la prevenzione delle malattie), una spinta che rappresenta quasi un quarto dell’attuale budget dell’agenzia, per contribuire ad aumentare la capacità di base della sanità pubblica a livello federale e statale. Il finanziamento prevede anche la costruzione di un’infrastruttura di dati di sanità pubblica e la formazione di nuovi esperti di salute pubblica, con un investimento di 500 milioni di dollari.
In conclusione, questa pandemia ci insegna che la mancanza di dialogo inter ed intra-professionale, di integrazione delle attività della medicina umana e veterinaria, e dunque l’assenza di una visione comune della sanità esacerbata dal peso di corporativismi professionali, sono di intralcio ad una gestione efficace degli interventi con costi enormi per la sanità pubblica. L’esperienza poi ci ricorda che la mancanza di una strategia nazionale per la ricerca e innovazione conduce spesso alla frammentazione degli investimenti in progetti a volte poco competitivi e al conseguente spreco di risorse. Il rilancio della sanità pubblica, che può trovare il supporto strutturale all’interno del PNNR, ma con i limiti già accennati, non fa leva su una alleanza tra le professioni in chiave One Health e su una governance centrale in chiave preventiva alla pandemia. Tali aspetti sono prioritari per la conoscenza della complessità dei fattori di rischio che sono alla base delle epidemie e pandemie. Di sicuro la veterinaria pubblica che parte con un forte accento One Health in virtù di interventi che storicamente operano nell’interfaccia ambiente-animale-uomo, è in grado di fornire alla sanità pubblica un prezioso know-how funzionale alla gestione della pandemia Covid-19 e di quelle future, anche attraverso la condivisione di dati di sanità animale che integrati con i dati umani ed ambientali, costituiscono la risorsa evidence-based per l’assunzione di decisioni politiche efficaci, sostenibili e con buon rapporto costo-benefici.
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