Il senso di colpa del sopravvissuto colpisce, soprattutto, le famiglie delle vittime che si trovano a fare i conti con un lutto improvviso e rapido che non permette di elaborare la morte. La psicologa: «La persona sperimenta una difficoltà nell’accettare il fatto di essere vivo e non aver potuto far niente per il caro che non c’è più»
Le persone che sopravvivono ad eventi traumatici gravi – incidenti, calamità naturali, attentati, pandemie – possono sviluppare un particolare e forte senso di colpa: quello, appunto, di essere sopravvissuti a tutti gli altri. È la cosiddetta sindrome del sopravvissuto, legata al Disturbo Post-Traumatico da Stress.
Si manifesta in relazione e come conseguenza di situazioni notevolmente stressanti in cui è presente una minaccia di morte reale per sé e per altri. La pandemia da Covid-19 ne è un esempio. Cercheremo di capire di cosa si tratta e cosa fare per gestirla con Annamaria Giannini, professore ordinario di psicologia alla Università di Roma Sapienza.
«Sopravvivere in una situazione di catastrofe, eventi critici o aspetti traumatici, come la pandemia che stiamo attraversando, è difficile perché lascia un senso di colpa rispetto a chi non ce la fa» spiega la professoressa. Se poi la perdita riguarda familiari stretti, parenti e amici, il dolore che sperimenta la persona che è riuscita a farcela è ancora più profondo.
Nel caso del Covid-19 la situazione è ancora più complessa. L’infezione da Sars-Cov-2, spesso, si è trasmessa nelle famiglie. E i lutti generati, improvvisi e con una rapida progressione della malattia, sono stati devastanti dal punto di vista emotivo.
«L’elaborazione del dolore e del lutto è un processo lungo che mobilita le emozioni connesse a un trauma. In relazione al Covid – precisa la professoressa Giannini – gli eventi traumatici sono stati molteplici e particolari. In primis, non avevamo mai vissuto una pandemia del genere; poi, molte famiglie hanno perso i loro cari senza avere nessun contatto e senza poter essere con loro negli ultimi momenti della vita. Oltre a questo, non hanno potuto assistere né celebrare i funerali, un aspetto fondamentale per l’elaborazione del lutto. Inoltre, la consapevolezza che abbiano sofferto aggiunge dolore al dolore: il Covid-19 è una malattia che si presenta in modo decisamente cruento – evidenzia la professoressa –. Molti pazienti sono stati intubati o hanno avuto supporti per respirare».
Ecco, quindi, che la persona che “continua a vivere” lo fa «con un dolore intenso dentro di sé e con la necessità di costruire significati, avere risposte – sottolinea la professoressa -. Questo comporta l’attivazione di emozioni e il senso di colpa è uno di questi. Quello che la persona sperimenta è una difficoltà nell’accettare il fatto di essere vivo e non aver potuto far niente per il caro che non c’è più».
Un grande trauma a due livelli: per la morte del proprio caro e per la modalità della morte, così improvvisa e solitaria. «Queste persone sono morte da sole – puntualizza – non ci era mai accaduto prima. C’è gente che ha visto i propri cari andare via con le ambulanze vivi e non li hanno mai più rivisti. In punto di morte non hanno potuto parlargli, tenergli la mano, abbracciarli. Li hanno visti scomparire».
Il senso di colpa che attanaglia il sopravvissuto non ha a che fare con una reale responsabilità, questo è chiaro. «È un processo emotivo irrazionale, non c’è un effettivo aggancio con la realtà. La persona si tormenta con pensieri del tipo: “Cosa avrei potuto fare di più, dove ho sbagliato, cosa ho fatto che non l’ha protetto, cosa non ho fatto che avrei potuto fare” – afferma la Giannini -. Un logorante ripetersi di pensieri e riferimenti ad azioni omesse o sbagliate. Prodursi degli scenari di ciò che avrebbe potuto essere e che non è. Una modalità che tiene bloccati nel dolore non permette di attraversare la sofferenza e la convivenza con la morte del proprio caro».
La risposta è ancorarsi alla realtà dei fatti, far ricorso alla razionalità. «Ripetersi di aver fatto il massimo è l’unica soluzione – aggiunge la Giannini -. Quello che non è stato fatto non è per responsabilità o colpa. Cercare il richiamo alla realtà aiuta a superare questi passaggi». E poi, coltivare la memoria di chi non c’è più: «Ricordarlo insieme alle altre persone, attivare un dialogo interno, intimo, con la persona persa. Questo aiuta molto, ci rende consapevoli che chi ci ha lasciato e non è più presente fisicamente tra noi resta dentro di noi. C’è una parte delle persone che non scompare mai perché la memoria le rende vive eternamente. Finché vive chi ti ricorda, sei vivo anche tu» conclude.
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