Intervista alla presidente di Federspecializzandi: «Necessario adattarsi ai tempi che viviamo e comprendere cose che non sono state ancora capite»
Implementare il territorio, migliorare la formazione, incrementare la situazione contrattuale degli specializzandi e superare l’imbuto formativo attraverso un’attenta pianificazione delle esigenze di salute della popolazione italiana. Sono solo alcune delle proposte che Federspecializzandi porta avanti da tempo. E lo fa anche ora che il discorso sul Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza e le ingenti risorse che porterà alla sanità italiana si fa sempre più concreto. Ne abbiamo parlato con Federica Viola, presidente di Federspecializzandi.
«Senza dubbio gli è stato chiesto di fare uno sforzo più grande. Ed è chiaro, era necessario. In alcuni casi non si poteva fare altrimenti e nessuno di noi si è tirato indietro. Alcuni dei medici specializzandi hanno lavorato nei reparti Covid per un anno e ciò significa aver impiegato un anno della loro formazione in questo modo. Di certo avranno perso qualcosa da questo punto di vista: parte della loro formazione è stata severamente interrotta e di questo bisogna tener conto. Un altro aspetto riguarda il fatto che non è stato totalmente riconosciuto il loro lavoro svolto nei reparti Covid. Perché se è vero che, da una parte, hanno avuto la possibilità di firmare contratti che li tutelassero un po’ di più, dall’altra è vero pure che in gran parte delle Regioni italiane il bonus Covid che è stato elargito agli operatori sanitari in prima linea non è stato dato agli specializzandi. Non in tutte, ripeto, ma in buona parte sì. Questo mostra chiaramente come vengono considerati i medici specializzandi un po’ da tutti, da chi governa in primis».
«Bisogna adattarsi un po’ a quelli che sono i tempi che viviamo. Bisogna andare a capire come sono e quali sono i luoghi della formazione. Bisogna espanderli il più possibile e comprendere cose che fino ad ora non sono state comprese. Prendiamo ad esempio il territorio. Il territorio è a tutti gli effetti un luogo della formazione. Lo è anche per gli specialisti che spesso stanno solo ed esclusivamente negli ospedali. La realtà è che non è così, e alla luce dl PNRR emerge proprio che anche gli specializzandi devono andare sul territorio perché parte delle patologie croniche possono e devono essere seguite, in parte, dagli specialisti. Se non ci sono anche loro sul territorio si ritorna al solito problema di un sistema ospedalocentrico. L’altro aspetto riguarda i camici bianchi specializzandi che devono avere l’opportunità di essere costantemente formati. Di conseguenza, le persone che li formano devono essere formate a loro volta, e questo è uno dei punti principali da tenere in considerazione. A volte si ha la fortuna di trovare un tutor che ti accompagna, è competente e bravo e utilizza metodi di valutazione funzionali rispetto a quel che stai facendo. A volte capita però di ritrovarti solo, ad imparare “on the job”. Però non è così che deve essere la formazione. L’acquisizione di competenze deve essere graduale, così come graduale deve essere l’assunzione di responsabilità. E poi dovrebbe esserci una evoluzione anche nella parte che riguarda i diritti e i doveri, ovvero quella contrattualistica. C’è bisogno che vengano adeguati un po’ i compensi economici, adeguati i diritti e che vengano riconosciute formalmente ferie, malattie, congedi di maternità e anche di paternità. Ci troviamo in una situazione in cui, siccome non abbiamo un contratto vero e proprio ma contratti in formazione con l’Università che ci eroga una borsa di studio, alcune cose sono un po’ aleatorie, lasciate all’interpretazione dei direttori di scuola o degli atenei. Anche questo va cambiato assolutamente e ammodernato. Esistono dei modelli europei molto validi da cui si può prendere spunto».
«Bisogna assolutamente superare l’imbuto formativo. Lo diciamo ogni volta. È chiaro che abbiamo un numero di laureati che supera le possibilità di essere inseriti all’interno di un sistema. Però bisogna farlo aggiungendo il territorio, allargando le reti formative includendo la medicina generale all’interno delle scuole di specialità e creando un concorso che sia unico, non più separato in periodi diversi dell’anno. È un sistema che crea confusione e non consente al giovane medico laureato di portare a termine il proprio percorso formativo. Devo dire comunque che negli ultimi anni la situazione è migliorata, sotto questo punto di vista. Però è chiaro che l’imbuto formativo deriva da una mancata programmazione sanitaria. Questo è un altro aspetto molto importante: andare a valutare quali sono i fabbisogni di salute della popolazione e poi da lì costruire il modello più adatto, e di conseguenza stabilire il numero di cardiologi, di mmg, di pneumologi, di chirurghi e così via che ci servono. Questa operazione non si può fare di tre anni in tre anni ma da qui ad almeno dieci anni…».
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