I vantaggi pratici e clinici, Vecchi (gastroenterologo): «Minor afflusso di pazienti in ospedale, livelli del farmaco nel sangue più stabili, reazioni avverse della formulazione endovenosa maggiormente evitabili»
Iniezione sottocutanea e non più infusione endovenosa. È questa la novità che sta rivoluzionando la vita di molte persone affette da malattie infiammatorie croniche intestinali, come la malattia di Crohn e la colite ulcerosa. Si tratta di una diversa somministrazione, più semplice e rapida, di quegli stessi farmaci biologici che, già da diversi anni, hanno migliorato la qualità di vita di tanti pazienti, riuscendo, molto spesso, a tenere sotto controllo anche i casi più gravi.
«Somministrare il farmaco per via sottocutanea offre numerosi vantaggi – spiega Maurizio Vecchi, professore ordinario di Gastroenterologia e direttore della scuola di specializzazione in Malattie dell’Apparato Digerente dell’Università degli Studi di Milano -. Per gli ammalati si riduce al minimo la necessità di andare in ospedale, poiché il farmaco può essere somministrato anche a domicilio. Per i medici cala il numero di pazienti da gestire all’interno delle strutture ospedaliere, un dato non trascurabile soprattutto in questo periodo in cui il SSN è già messo a dura prova dall’emergenza Covid». Ma non è tutto. «Dai dati ricavati dallo studio dei livelli di farmaco nel sangue dei pazienti trattati si evince che tali livelli rimangono più stabili nel tempo», aggiunge Vecchi. Le ricerche hanno dimostrato che, al termine della fase acuta di induzione del farmaco per via endovenosa, è possibile mantenere la remissione raggiunta anche per via sottocutanea, con risultati identici al mantenimento endovenoso.
I pazienti affetti da malattie infiammatorie croniche intestinali avranno, dunque, la possibilità di optare per l’una o l’altra tipologia di somministrazione. Una scelta che, in Italia, riguarda circa 250 mila persone. La malattia di Crohn e la colite ulcerosa colpiscono spesso i giovani, se non addirittura pazienti in età pediatrica. L’andamento cronico e recidivante della patologia impatta significativamente sulla vita scolastica, universitaria e lavorativa. Un impatto negativo che, fortunatamente, si è notevolmente ridotto grazie all’utilizzo dei farmaci biologici.
«Fino a due decenni fa il cortisone era il farmaco più utilizzato per il trattamento delle malattie infiammatorie croniche intestinali. Riuscire a limitare i sintomi, restituendo una migliore quotidianità ai nostri pazienti – racconta lo specialista – era per noi già il più atteso dei risultati. Oggi, grazie all’utilizzo dei farmaci biologici, non solo siamo in grado di tenere ugualmente sotto controllo i sintomi, ma anche il progredire della malattia, limitando le conseguenze che questa avrebbe sull’apparto gastrointestinale nel corso degli anni se non venisse somministrato alcun trattamento. In altre parole, i farmaci biologici sono in grado di cambiare la storia naturale della malattia, arrestandone la progressione e diminuendo anche l’eventuale ricorso alla sala operatoria».
Ovviamente, oggi come un tempo, esistono pazienti farmacoresistenti. «Ma questa percentuale è nettamente calata – assicura il gastroenterologo -. In ogni caso, il ricorso all’intervento chirurgico non deve essere visto come una sconfitta, un insuccesso della terapia medica. Attualmente abbiamo a disposizione tecniche molto avanzate, più efficaci e meno invasive. Anche la loro evoluzione – conclude – ha, infatti, contribuito a migliorare la qualità di vita dei pazienti, al pari dei farmaci biologici».
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