I ricercatori dell’Università Bicocca e dell’ASST di Monza stanno lavorando per mettere a punto uno strumento in grado di individuare la presenza di autoanticorpi capaci di neutralizzare gli interferoni in un organismo e mettere l’individuo in condizione di ammalarsi della forma grave di Covid-19
Un test per misurare i livelli di autoanticorpi che neutralizzano l’interferone in un organismo per individuare i soggetti con maggior rischio di contrarre il virus della Sars-Cov-2 in forma più severa. È questo l’obiettivo dei ricercatori dell’Università Bicocca di Milano e dell’ASST Monza che hanno preso parte, con i colleghi degli Spedali Riuniti di Brescia e del Policlinico San Matteo di Pavia, ad uno studio internazionale coordinato dal National Institute of Allergy and Infectious Diseases (NIAID), dalla Rockfeller University di New York e dall’Università di Parigi fornendo i dati clinici, diagnostici e terapeutici raccolti in un archivio elettronico relativi ai pazienti Covid ospedalizzati.
«Gli studi fatti sin dai primi mesi della pandemia hanno cercato di indagare le cause della estrema multiformità della malattia che può manifestarsi in modi vari, può essere asintomatica come invece avere una forma grave che porta ad una morte rapida – spiega Paolo Bonfanti, professore di malattie infettive dell’Università Bicocca di Milano –. Da tempo gli studi si sono concentrati sulle cause genetiche di tali diversità e sul ruolo di alcune proteine prodotte dalle cellule del sistema immunitario».
La ricerca si è focalizzata in particolare sugli autoanticorpi che neutralizzano gli interferoni di tipo I. Lo studio ha evidenziato che gli autoanticorpi anti-interferoni di tipo I nel sangue aumentano dopo i 60 anni e che la presenza ad alti livelli è una sentinella dell’insorgenza della malattia in forma grave. «Nel 20 per cento dei pazienti che sviluppano le forme più gravi, c’è la presenza di questi autoanticorpi – dichiara Bonfanti –. Si tratta di proteine che neutralizzano l’interferone, la molecola biologica che viene prodotta dall’organismo in risposta ad una infezione virale e quindi lo predispongono ad una malattia grave».
La ricerca ha evidenziato che questi autoanticorpi sono presenti nelle persone ancora prima della malattia e aumentano in funzione dell’età. Quindi un individuo giovane è raro che abbia autoanticorpi anti-interferone, mentre con il progredire dell’età aumenta la probabilità di averli. «Questo spiega in parte anche il perché ci sia una correlazione tra la malattia e l’età dei pazienti».
Quindi il riconoscimento precoce di questi autoanticorpi negli anziani e nei soggetti che presentano mutazioni che alterano il normale funzionamento del sistema immunitario potrebbe permettere l’identificazione dei soggetti a rischio.
«Alla luce di un risultato così importante che interessa una quota rilevante della popolazione, è allo studio un test che possa essere a disposizione di tutti e aiuti ad individuare i soggetti che hanno questi autoanticorpi» puntualizza il direttore delle malattie infettive dell’Università Bicocca.
Chi dal test dovesse evidenziare la presenza di autoanticorpi in grado di neutralizzare il lavoro degli interferoni, sappiamo essere soggetto più suscettibile alla malattia grave; quindi, se non fosse ancora vaccinato dovrebbe farlo rapidamente, se invece fosse vaccinato, seppur con un rischio ridotto, potrebbe riammalarsi. «In caso di positività dovrebbero rivolgersi subito al medico – conclude Bonfanti -, perché oggi ci sono armi a disposizioni per sconfiggere il Covid come gli anticorpi monoclonali che devono essere somministrati nelle prime ore della dell’infezione quindi sarebbe di estrema utilità riconoscere i soggetti a rischio».
Iscriviti alla Newsletter di Sanità Informazione per rimanere sempre aggiornato