Tre giovani ricercatori a Berlino, un incubatore e la capacità di ascoltare migliaia di storie di sopravvissuti. Così è nata la piattaforma che mappa gli ex pazienti Covid per aiutare la sanità pubblica e superare la solitudine della malattia
Si chiama Health flows (flussi salute) ed è una app che tre giovani ricercatori stanno mettendo a punto in un incubatore tedesco. Mattia Caruson è uno di loro. È italiano, ha studiato all’università Bocconi di Milano e sta dando vita ad uno studio sulle conseguenze che il Covid lascia negli individui colpiti dalla malattia a lunga termine.
«Ho concluso gli studi all’università Bocconi ed ho iniziato a lavorare nella sanità come consulente Health Care per comprendere come e quali siano oggi le inefficienze e come migliorare la vita dei pazienti. In pratica posso definirmi il lato business del team. Poi c’è Adriatic, albanese, ma residente in Germania che ha un dottorato in tecnologia dei processi che ha mappato per sei anni al fine di efficientarli. Mettendo insieme le nostre esperienze, abbiamo capito che potevamo lavorare sul paziente per cercare di conoscere di più e meglio il suo percorso. Infine, abbiamo incontrato Jonas, che è tedesco e si occupa di statistica. Mette insieme i dati, raccogliendo ed organizzando le esperienze di milioni di pazienti in diverse aree geografiche per capire analogie di sintomi, cure e risposte scientifiche».
Tre professionalità che si completano e danno vita ad una applicazione. «Ci siamo chiesti dove avrebbe avuto più valore in questo momento – pone il quesito Mattia – ed ovviamente la risposta era nel Covid. Abbiamo visto che il long Covid, essendo privo di letteratura, era un terreno inesplorato. Ad oggi, infatti, esistono solo i gruppi Facebook. Noi ne abbiamo presi in esame due, con circa 20mila iscritti ciascuno. La criticità da superare è che le informazioni all’interno dei social non sono strutturate, ma vengono perse perché le notizie raccolte sono istantanee e legate ad una reazione immediata; un commento o un like. Il giorno dopo quella notizia sparisce dalla home page, superata da tante altre. Gli iscritti o si confrontano e catturano l’informazione quando viene data, oppure la perdono e questa non provoca alcuna conseguenza. Chiaramente i gruppi Facebook sono una grossa risorsa per conoscere altre persone nelle stesse condizioni, però non sono strutturati».
I ragazzi impegnati nell’incubatore di Berlino iniziano a lavorare su una piattaforma in grado di collezionare le storie di ciascuno e poi, con l’ausilio della tecnologia, di mappare e studiare il comportamento aggregato dei pazienti, come si è mossa la popolazione, dai primi sintomi alla guarigione. Questo permette loro di trovare altri pazienti, capire come hanno agito e monitorare anche le inefficienze della sanità pubblica.
«Ci sono situazioni in cui le malattie necessitano cinque anni o più per essere identificate – racconta Mattia -. La base di partenza mira a scoprire le inefficienze. Per questo parliamo con i medici e cerchiamo di capire come poterle risolvere. Stiamo costruendo questo percorso dal basso, ascoltando i pazienti, evidenziando gli impedimenti che rendono le linee guida poco efficienti. Ora stiamo contattando aziende, collaborando con altre community, offrendo tecnologia per raccogliere sintomatologie, tempi di recupero. Una volta evidenziati questi dati, li lavoriamo in una piattaforma. I pazienti si collegano e raccontano i loro sintomi passo per passo, in modo strutturato con tempi e date. Il segreto sta nel raccontare la storia nel dettaglio, immagazzinarla e processarla con la tecnologia».
Due le community coinvolte nel processo: una in Italia e la seconda in Germania. Ventimila iscritti ciascuna, «a cui se ne aggiungeranno, a breve, una terza e una quarta, rispettivamente negli Stati Uniti e Gran Bretagna – puntualizza Mattia -. In questa prima fase sono 300 le storie inserite nella piattaforma, ancora poche, ma sufficienti a dare le primissime indicazioni: i tempi di recupero cambiano in maniera significativa dopo i 30 anni. Fino ad allora sono rapidi e senza grossi effetti collaterali persistenti, mentre al raggiungimento dei trenta per superare i sintomi ci vuole più tempo».
La mappatura tiene conto di età, sesso, regione di appartenenza, ma anche comportamenti (chi è andato prima dal medico e chi dopo, ad esempio). «Ai pazienti chiediamo di dividere la loro esperienza in step e inserirla sulla piattaforma passo dopo passo, raccontando cosa è successo nelle diverse fasi. Ad oggi molte ricerche ignorano le sensazioni dei pazienti, noi invece stiamo raccogliendo i dati e un domani faremo un’analisi anche legando i tempi di recupero al sentimento. La cosa bella e rivoluzionaria è il partire dal basso, facendo raccontare ai pazienti la loro storia. Poi grazie alla tecnologia estraiamo i dati e facciamo le statistiche».
Diversi gli algoritmi utilizzati per mappare i pazienti Covid per la complessità di linguaggio da tenere in considerazione. «Sarebbe stato più semplice sottoporre ai pazienti un questionario prestabilito – spiega Caruson – ma in quel modo avremmo avuto una storia asettica, senza sfumature altrimenti impercettibili. Dal racconto invece noi abbiamo una maggiore aderenza alla realtà quindi abbiamo creato dei registri in grado di riconoscere le parole e legare le situazioni».
Superare la solitudine della malattia e collaborare con la sanità pubblica per abbreviare ed efficientare i tempi di cura del long Covid. Sono questi gli obiettivi che i tre giovani ricercatori si pongono: «Mettere in rete e far dialogare chi ha avuto e superato la malattia è lo scopo primario del progetto – rimarca l’ex studente della Bicocca –. Poi vogliamo supportare il mondo sanitario mettendo a disposizione i nostri dati per dare delle indicazioni che possano essere preziose per i medici. Il nostro non è un clinical trial, ma può essere la scintilla per studiare e costruire uno studio clinico in grado di migliorare nei pazienti anche l’accettazione di una malattia. Imparare dalle esperienze altrui, infatti, crea quell’effetto del “tutti insieme possiamo farcela”».
Ultimare la piattaforma entro il prossimo mese di marzo è la deadline che i giovani ricercatori si sono posti. «Per questo dobbiamo ingaggiare le persone, migliorare il prodotto e sviluppare la tecnologia. Per arrivare un domani ad avere un progetto sofisticato abbiamo bisogno di tempo, ma soprattutto non ci fermeremo al long Covid, ma inizieremo a testare quali e quante sono le patologie croniche».
L’ascolto dei pazienti rappresenta l’ingranaggio intorno cui i giovani ricercatori hanno costruito la loro app: «Leggendo i dati fino ad ora raccolti emerge che le persone più che soluzioni cliniche, dalla community, si aspettano supporto – ammette lo stesso Mattia –. Quindi oggi cerchiamo di raggruppare le persone con un percorso simile, le mettiamo in contatto, creiamo un evento e alla fine ci ringraziano per l’opportunità di averle ascoltate».
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