Sara lavorava al Centro di diagnosi del tumore al seno di Herat della Fondazione Veronesi. A Milano ha iniziato una nuova fase della sua vita
Sara, medico ginecologo, ha 34 anni, gli occhi scuri, il viso appena coperto e le unghie laccate, simbolo di un desiderio di libertà e di normalità che in Afghanistan le è stato negato. Lei è una delle otto dottoresse afghane che è riuscita ad arrivare in Italia grazie alla Fondazione Veronesi, per la quale lavorava. Era impiegata al Centro di diagnosi del tumore al seno di Herat, chiuso dallo scorso 14 agosto.
La incontriamo nella sede milanese della Fondazione. Ha gli occhi lucidi e la voce flebile mentre racconta quel lungo viaggio verso la libertà che è iniziato ad agosto, prima ancora dell’occupazione di Herat da parte dei talebani.
«Sentivamo gli spari e le notizie sulla guerra che si stava avvicinando. Era il segnale che dovevamo lasciare la nostra casa di famiglia e trasferirci velocemente dall’altra parte della città. Stavo ancora lavorando e ricevevo le pazienti quando i talebani hanno preso Herat, e con mia madre e mia sorella minore, anche lei medico, ci siamo dirette a Kabul».
«La prima sera all’aeroporto abbiamo visto tutto il dramma di un paese e della sua gente che voleva fuggire – ricorda la donna -. Non siamo riuscite ad attraversare subito il gate perciò, per non finire in mezzo a risse e sparatorie, siamo rientrate all’hotel dell’aeroporto. Poi alle tre di mattina è arrivata la notizia tanto attesa. Un volo verso l’Italia ci stava aspettando, ma per non destare sospetti abbiamo dovuto lasciare tutto in Afghanistan. Quel giorno abbiamo visto i talebani controllare ogni persona e, per non rischiare, siamo partite solo con una piccola valigia e i documenti importanti».
Il pericolo per le otto dottoresse afghane e i loro familiari (34 in tutto, con dieci bambini) è alle spalle, ma negli occhi di Sara si legge ancora il terrore che smorza accennando un sorriso. È consapevole che la strada per la libertà è ancora lunga: «Ho paura per i miei fratelli e mia sorella rimasti a Herat. Per il momento siamo in contatto attraverso i social, ma chissà fino a quando avranno la linea internet? – domanda volgendo lo sguardo al mediatore culturale che traduce le sue parole -. Anche le mie pazienti ora non potranno più ricevere le cure di cui hanno bisogno e questo mi rattrista».
La tristezza lascia spazio alla speranza immaginando il futuro. «L’Italia è un paese ospitale, mi dà senso di sicurezza, siamo lontani dalla guerra e spero presto di tornare ad esercitare la mia professione».
Tornare ad essere medico è il più grande desiderio che hanno Sara e le sue giovani colleghe, ma per questo devono fare i conti con la burocrazia e con la lingua italiana che non conoscono. «Dopo aver trascorso dieci giorni in un Covid Hotel, le dottoresse saranno sottoposte ad una serie di esami per comprendere se il vaccino fatto in Afghanistan e non riconosciuto in Italia sia sufficiente a garantire una adeguata copertura, oppure se dovranno rifare la vaccinazione – spiega Annamaria Parola, responsabile delle relazioni istituzionali per i progetti medici internazionali di Fondazione Veronesi –. Dopodiché dovranno studiare l’italiano per acquisire un minimo di autonomia».
Intanto la Fondazione Veronesi si sta occupando del riconoscimento in Italia dei titoli di studio conseguiti nel loro Paese per permettere loro di ricominciare ad esercitare la professione: «Questo aspetto è fondamentale, anche perché ricordiamo che da un punto di vista emotivo stanno vivendo un vero e proprio lutto nel lasciare dietro di sé quello che avevano costruito in una vita, a cominciare dagli affetti e dal lavoro».
L’accoglienza di queste donne è affidata alla Fondazione Progetto Arca: «Noi oltre a casa, pasti e vestiti, aiutiamo queste persone ad acquisire il titolo di rifugiato. Inoltre, lavoriamo sull’aspetto emotivo perché chi arriva nel nostro paese con una esperienza così pesante ha bisogno di sicurezza» spiega Costantina Regazzo, direttrice dei servizi della Fondazione.
«La nostra equipe di psicologi, educatori, mediatori e assistenti sociali, quindi, garantisce un ambiente accogliente e una quotidianità che diventa essenziale al fine di elaborare l’esperienza traumatica vissuta. Parlo di normalità perché di fronte a situazioni di questo tipo è difficile dormire, allontanare sogni terribili e non rivivere in continuazione quanto sperimentato. Le paure e la preoccupazione di cosa potrà accadere ai parenti rimasti in Afghanistan è il primo tema. La seconda paura è non riuscire a costruire una nuova vita professionale e sociale nel nostro paese considerando che loro, per molto tempo, hanno garantito la salute di altre donne».
«Un nuovo capitolo della vita delle otto dottoresse afghane è appena iniziato – riprende Annamaria Parola – però sanno che non sono abbandonate, che sono seguite dalla Fondazione che continuerà ad impegnarsi affinché questa nuova fase possa iniziare nel migliore dei modi e sia anche anche utile per approfondire e perfezionare le loro competenze medico scientifiche».
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