In occasione della Giornata dei sogni che si celebra il 25 settembre, l’intervista a Luigi Ferini Strambi, direttore del centro di Medicina del Sonno: «Per aiutare la memoria onirica mettere un taccuino sul comodino e concedersi un risveglio lento»
Qualcuno sogna ad occhi aperti, tutti sognano ad occhi chiusi. «Gli unici “non sognatori” sono coloro che hanno delle particolari lesioni al cervello, a causa delle quali hanno perduto la capacità di sognare». Ad assicurarlo, in occasione della Giornata dei Sogni che si celebra il 25 settembre di ogni anni, è Luigi Ferini Strambi, professore di neurologia all’università Vita e Salute San Raffaele di Milano e direttore del centro di Medicina del Sonno.
E allora perché ci sono delle persone incapaci di raccontare anche soltanto uno dei loro sogni? «Semplicemente perché non lo ricordano», spiega il docente.
Per capire la correlazione tra il sognare e la capacità di ricordarne il contenuto bisogna fare un passo indietro, lungo oltre mezzo secolo. Nel 1953 gli studiosi E. Aserinsky e N. Kleitman ipotizzarono un collegamento tra la fase Rem del sonno e i sogni, scoprendo che nell’80% dei casi i soggetti svegliati durante la fase Rem ricordavano un sogno.
«Tuttavia – sottolinea Ferini Strambi -, questa connessione non è poi così perfetta: anche un soggetto svegliato da una fase non Rem può essere in grado di raccontare un’attività mentale sperimentata durante il sonno. Potrà essere meno fantasiosa o fantastica di un sogno raccontato al risveglio dalla fase Rem, ma sarà pur sempre un’attività onirica».
A confermare questa possibilità c’è anche un’altra sperimentazione: «Se ad un soggetto viene represso farmacologicamente il sonno Rem, l’esperienza del sognare non verrà compromessa. Ancora, analizzando la percentuale di sonno Rem dei grandi sognatori, rispetto a coloro che dicono di non sognare, si scoprirà che non è poi così diversa».
Studi, esperienze, dimostrazioni diverse tra loro, dalle quali si può comunque giungere ad una conclusione condivisa: «La correlazione tra sogno e sonno Rem esiste – sottolinea il professore -, ma il sonno Rem non è strettamente necessario affinché il sogno possa essere ricordato».
Esistono anche altri fattori in grado di compromettere la fissazione del ricordo di un sogno. «Chi si sveglia di soprassalto, per un rumore, il suono di una sveglia, ricorderà molto più difficilmente se e cosa stava sognando. Un passaggio brusco dallo stato di sonno ad un’attivazione corporea improvvisa, infatti, può inficiare sulla capacità di ricordare un sogno – spiega Ferini Strambi -. Al contrario, tengono meglio a mente il contenuto dei loro sogni i soggetti insonni o chi soffre di apnee notturne, soprattutto se i risvegli avvengono durante la fase Rem del sonno».
Ma per “i non sognatori” (o meglio per coloro che credono di essere tali) una buona notizia c’è. «Mettere sul comodino un taccuino con una penna per annotare al risveglio o anche nel corso della notte qualche dettaglio di ciò che si stava sognando può stimolare il ricordo del sogno – assicura il neurologo -. Così come concedersi un risveglio lento: rimanere ancora un po’ nel letto dopo il suono della sveglia, in una condizione tra il sonno e la veglia, può facilitare l’emergenza del ricordo dell’attività onirica».
Su questo mondo fantastico c’è ancora tanto da scoprire. «Dai racconti dei “sognatori” appare evidente che ci sia una connessione tra il vissuto del giorno prima o le ansie del giorno dopo e il contenuto dei sogni, ma stabilirlo con certezza, ad oggi, è impossibile. Di recente, è stata osservata la correlazione tra il sogno e l’attivazione della zona posteriore del nostro cervello: con un’attività cerebrale veloce il soggetto ricorda il sogno; al contrario, quando l’attività è lenta il soggetto non ricorda nulla. Una nuova evidenza che fa ipotizzare che la capacità di ricordare un sogno possa essere connessa, più probabilmente, ad un’attività metabolica, piuttosto che – conclude Ferini Strambi – ad emozioni specifiche».
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