«I casi di malessere sono molti di più, tanti non arrivano neppure in ospedale, ma si smorzano tra le mura domestiche o la scuola»
È allarme suicidi di ragazzini in Lombardia. Dallo scorso 13 settembre ad oggi sono infatti 5 i giovanissimi tra i 12 e i 15 anni che hanno tentato di togliersi la vita. Pur non essendo emersi elementi di collegamento tra i vari episodi, è evidente che esiste un malessere che serpeggia tra i più giovani che deve essere attenzionato dalle famiglie e dalla scuola, come conferma Francesca Maisano, psicologa e psicoterapeuta della Casa Pediatrica del Fatebenefratelli Sacco.
«L’effetto Covid ha svegliato problemi già esistenti, prima camuffati – spiega Maisano, che evidenzia come il numero dei giovanissimi che si provoca ferite, lesioni o nei casi estremi cerca di togliersi la vita sia in aumento -. Al pronto soccorso, nel post pandemia, sono arrivati molti ragazzini che hanno aggredito i genitori, i coetanei o hanno compiuto gesti di autolesionismo. Quello che la pandemia purtroppo ha creato è l’emersione del problema a causa del fatto che si sono interrotte le relazioni».
Sono circa il 30 per cento in più i ragazzi che nel post Covid hanno fatto emergere un malessere profondo. Un dato che per Maisano non corrisponde alla realtà, che sarebbe ben più grave: «I casi sono molti di più, tanti non arrivano neppure in ospedale, ma si smorzano tra le mura domestiche o la scuola, creando una sacca di malessere che, in casi estremi, poi può sfociare in episodi violenti, a volte mortali. Occorre perciò non trascurare la psiche dei giovani. Purtroppo, la vita frenetica ci porta a non ascoltare le grida di aiuto che i ragazzi, attraverso il corpo, lanciano. E così si perdono le occasioni per aiutarli».
È fondamentale dunque saper riconoscere nei gesti dei minori il loro malessere. «Preso atto che esiste il problema è necessario riconoscerlo – riprende la psicologa –. Rispetto ai tentativi di suicidio non esistono differenze, anche se le ragazzine di solito interrompono le relazioni con i famigliari, si chiudono in una sorta di mutismo, danno inizio al cosiddetto rito della cameretta e del bagno dove trascorrono molte ore in solitudine ed esprimono il loro disagio con attacchi al corpo e gesti di autolesionismo come tagli alle mani e alle braccia. I maschietti, al contrario, esplodono in gesti di rabbia che sprigionano aggressività nei confronti di altri coetanei. La sofferenza però li accomuna, pur agendo in maniera differente».
Quando accadono episodi di violenza fisica nei confronti di se stessi o di altri coetanei scatta l’intervento dello psicologo che prende in carico il minore per comprendere il male profondo che lo affligge. «L’iter è sempre lo stesso – racconta Maisano –, dal pronto soccorso vengono dirottati alla Casa Pediatrica. Qui sono presi in carico dallo psicologo e psicoterapeuta e, nel caso di tentato suicidio, indirizzati alla stanza appositamente allestita con telecamere e personale per monitorare questi ragazzi ventiquattro ore su ventiquattro».
«Tutti, seppur con storie molto differenti, sono accomunati da un grande desiderio di parlare, di essere visti perché il paradosso nasce proprio lì – aggiunge la psicologa -. In qualche modo è vero che l’adolescente attacca il proprio corpo, ma lo fa come una ricerca di attenzione e affermazione del proprio io. Quando ciò accade il corpo è come se diventasse un boomerang, prima registra il malessere e poi lo scaglia contro se stesso o contro l’altro che è causa della sofferenza».
Definiti gli ambiti del malessere è fondamentale appropriarsi delle emozioni che invece vengono lasciate fuori dai giovani. Il dialogo tra genitori e figli è il primo obiettivo che le psicologhe della Casa Pediatrica auspicano in una situazione di disagio giovanile così profondo. «Se durante la pandemia i genitori, nonostante una maggiore presenza, hanno ignorato il malessere dei figli, questo ha fatto sì che anziché lenirlo, l’ha amplificato e fatto esplodere. Per correre ai ripari è necessario coltivare le relazioni e soprattutto rappresentare al meglio la quotidianità ai ragazzi. Ricordiamo infatti che gli adolescenti sono spugne, assorbono ciò che vivono nell’ambito famigliare. Se tra i genitori c’è tensione, questo si ripercuote sugli adolescenti. In tal caso occorre prima di tutto lavorare sugli adulti, far comprendere loro che i gesti di autolesionismo e rabbia sono il preludio a qualcosa di più grande e molto grave. Anche un calo ponderale o un cambiamento nell’abbigliamento possono essere segnali da cogliere».
«Il mio consiglio è che i genitori prestino più attenzione ai ragazzi così come gli insegnanti. Se un alunno manca di rispetto, si mostra aggressivo, la nota disciplinare è corretta, ma non basta. È necessario che si percepisca il disagio. Il percorso di recupero di questi adolescenti dura in media un anno, al termine del quale il ragazzo arriva ad avere una maggiore comprensione del proprio caos interno, ma per costruire una identità poi è necessario proseguire il percorso ancora per qualche tempo».
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