di F.D.N, Dirigente medico di organizzazione servizi sanitari di base e vaccinatrice
Sono stati due anni incredibilmente faticosi. A guardare adesso indietro a volte mi chiedo come sia stato possibile superarli giorno dopo giorno e se avrei la forza di rifarlo ancora. “Fare il medico è una scelta di vita più che una professione”, l’ho sentito ripetere tante volte ma forse solo adesso ne ho finalmente capito il senso. In quei giorni di primavera 2020, quando entravo nel distretto e guardavo i corridoi vuoti e senza voci mi sembrava di star sbagliando qualcosa. Che senso aveva quella struttura senza le persone che ogni giorno arrivavano per un vaccino, un consulto, una visita o una richiesta? Che senso aveva e quanto potevano durare le consultazioni al telefono o attraverso una porta chiusa?
Ricordo che in quel periodo cominciavano le prime sperimentazioni sui vaccini e tra colleghi ci rincuoravamo pensando a quanto sarebbe stato diverso avere un’arma come quella contro un virus che ci stava privando di tutto. Poi sono arrivate le USCA, ci siamo impratichiti con la telemedicina e un altro lockdown ci ha richiusi in autunno. A fine anno erano pronti i vaccini, mi ricordo ancora il passaggio dei trasporti dal Brennero il giorno di Natale. Mentre lo guardavo in televisione pensavo che tutte le case italiane avessero un doppio motivo per festeggiare. La prima dose l’ho fatta a gennaio e 21 giorni più tardi mi sentivo di nuovo un leone. Volevo recuperare il tempo perduto con la famiglia, con i pazienti e con i colleghi. Pensavo a quella sensazione di liberazione che avevo avuto con l’iniezione, sullo stesso braccio dove c’era la cicatrice del vaccino contro il vaiolo a ricordarmi che la storia si ripete.
Quando ci hanno comunicato che noi impiegati sul territorio avremmo preso parte attiva alle vaccinazioni per Covid-19 nei grandi hub ho provato molta emozione, come se di quella storia fossi entrata un po’ a far parte anche io. C’è stato tanto lavoro da fare insieme con infermieri, farmacisti, operatori sanitari, sindaci e autorità. Le prime anamnesi mi hanno ricordato la bellezza di poter divulgare conoscenze, di spiegare come funziona un vaccino a mRNA o a vettore virale, di rassicurare chi aveva timore di un prodotto nuovo. Sguardi nervosi che si rilassavano subito dopo l’iniezione e ritornavano quasi bambini: «Già fatto?». Quindici minuti che ad oggi l’80% della popolazione italiana ha vissuto, in situazioni e contesti diversi ma con l’obbiettivo comune di camminare un passo avanti a Sars-CoV-2.
Ma mentre questo lavoro di immunizzazione e ritorno alla vita si svolgeva negli hub, troppi media hanno dato voce a quei pochi “no vax” arroccati sulle loro posizioni. Informazioni distorte e falsate, gridate e diffuse in maniera incurante sui social. Nel tentativo, spesso riuscito, di convincere i timorosi che non avevano i mezzi per contrastare un tale carico di paura e sospetto rovesciato su di loro. Più volte tra colleghi ci siamo detti: «Siamo noi l’altra fazione di questa battaglia, abbiamo il dovere di portare chiarezza dove si fa confusione». Con pazienza abbiamo chiamato tanti, convinto molti ma purtroppo non tutti.
Lavorando ogni giorno negli hub vaccinali, durante l’estate, abbiamo visto scendere il numero di prenotati. Abbiamo aperto a tutti ma i numeri hanno continuato ad abbassarsi. Poi sono tornati a salire grazie ai ragazzi, gli ultimi ad essere chiamati e quelli che hanno risposto più in fretta. Ma se la percentuale di non vaccinati si fa sempre più esigua, non si può evitare di chiedersi su chi resta: «Come li raggiungeremo, come li convinceremo se non sappiamo chi sono e non vengono qui?».
A questo quesito ho in parte trovato risposta un giorno che ero nel mio paese d’origine, d’accordo con il sindaco per un open day di recupero per tutti i cittadini non ancora vaccinati. Gli afflussi erano stati moderatamente buoni fino all’orario di chiusura, lavoratori e anziani che ringraziavano per aver organizzato una giornata in cui il vaccino l’avevamo portato ancora più vicino. Poi è arrivato un ragazzo che conoscevo da quando era bambino. Non aveva avuto una vita “facile” o molte opportunità, ma aveva sempre conservato un grande spirito. Mi dice che non è convinto, che ha paura di contagiare in casa facendo il vaccino. Insieme all’infermiera gli spieghiamo tutto in parole semplici: come funziona e come protegge, quanto può aiutare e cosa gli eviterebbe in caso di contagio. Fa tante domande ma alla fine dice: «Mi sembra una cosa buona».
Gli dico che mi fa piacere ma, controllata la dotazione con la farmacista, mi rendo conto che non posso fargli il vaccino. Abbiamo una fiala di Moderna che contiene 10 dosi, aprirla per farne una sola significherebbe buttarne nove e non possiamo permettercelo. Mi scuso, gli chiedo di venire all’hub vaccinale in città nei giorni successivi, gli spiego perché da solo non può averlo.
Mi risponde: «Dottore’ e che problema c’è? Se mi aspetti 20 minuti te le trovo io altre nove persone!». Mi viene quasi da sorridere, dove potrebbe mai trovarmele così rapidamente quando da mesi le inseguiamo senza successo? Alla fine accetto, ma con limite di tempo. Lui esce soddisfatto e tra colleghi ci guardiamo a metà tra tristezza per non aver potuto vaccinare quel ragazzo e rassegnazione al fatto che non troverà quelle persone. Nulla ci sorprende di più quando soli quindici minuti dopo il ragazzo rientra da noi seguito effettivamente da nove persone. «Hai visto dottore’? Te l’avevo detto!». Li guardo e ne riconosco molti, vite difficili e tanti problemi, età diverse e ancor più diverse storie. Penso con immensa felicità che quelle persone non le avremmo mai potute raggiungere da soli, che l’aiuto prezioso di quel ragazzo ci ha permesso di “recuperare” un vero e proprio tesoro. Sono state le 10 dosi che abbiamo fatto con più soddisfazione, spiegando loro con minuzia e semplicità quello che sarebbe successo. «Tranquilla dottore’, tra 20 giorni te li riporto tutti io», mi ha assicurato quel “ragazzo difficile”.
Forse, ho pensato, il segreto per aiutarci a vaccinare tutti è proprio questo: coinvolgere tutta la comunità nel grande gesto che stiamo compiendo. Dare informazioni, “perdere tempo” a spiegare per bene. Perché non c’è cosa più forte della fiducia che si instaura tra medico e paziente per trasformare un impegno in un successo.
F.D.N
Dirigente medico di organizzazione servizi sanitari di base e vaccinatrice
Medicina territoriale Abruzzo
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