Cesare De Virgilio e Nadia Neri hanno scelto di partecipare al bando e hanno cominciato nel picco della seconda ondata pandemica, tra ottobre 2020 e gennaio 2021. Ora però chiedono che le Usca diventino la base per un potenziamento della sanità territoriale del futuro
“In qualsiasi casa andrò, io vi entrerò per il sollievo dei malati”. Non c’è passo del giuramento di Ippocrate più adatto a descrivere il compito dei tanti medici che si sono messi in gioco nelle Usca, Unità speciali di continuità assistenziale, dall’inizio dell’emergenza Covid. Si tratta di migliaia di medici, spesso neolaureati, che dal marzo 2020 ogni giorno hanno indossato tuta e dispositivi di protezione per “stanare” il Covid casa per casa, ma a volte anche solo per rassicurare pazienti impauriti da un nemico sconosciuto e temibile.
La loro attività rischia, però, di interrompersi il 31 dicembre 2021 o comunque allo scadere dello stato di emergenza, se nella Manovra di bilancio 2022 non ci sarà una proroga. Ma sono in molti a chiedere che queste speciali unità, che in molte regioni sono state decisive per evitare che gli ospedali collassassero, possano proseguire la loro attività anche dopo l’emergenza pandemica, come ausilio dei medici di medicina generale per la presa in carico domiciliare dei pazienti.
«Sono entrato nelle Usca della Regione Puglia intorno all’inizio del 2021, nel pieno boom della seconda ondata, quando era necessario svolgere decine e decine di visite al giorno» racconta a Sanità Informazione Cesare De Virgilio, medico attivo nelle Usca della provincia di Bari: «È un’esperienza che mi ha dato tanto non solo dal punto di vista professionale ma anche umano: a volte i pazienti erano solo terrorizzati e la cosa più utile per loro non era il farmaco ma un contatto umano, qualcuno che parlasse con loro, che li rassicurasse».
A De Virgilio fa eco Nadia Neri, dottoressa 26enne operativa nelle Usca di Sassari, In Sardegna: «Ho iniziato a lavorare nell’ottobre 2020, nella fase più delicata della pandemia, con i contagi in vorticoso aumento. Quando era uscito il bando delle Usca c’era poca disponibilità di medici e ancora non si sapeva a cosa si sarebbe andati incontro. Tuttavia, mi sono sentita in dovere di dare il mio contributo cosciente che in caso di eventuale contagio mi sarei potuta difendere meglio dal virus rispetto a colleghi più grandi».
L’assistenza domiciliare è stato il primo compito di queste Unità, ma non l’unica attività. «In una prima fase il progetto Usca è stato seguire a casa i pazienti. La casa è il primo posto dove può essere preso in carico un paziente. Nelle regioni dove è maggiore la copertura Usca si sono ridotte le ospedalizzazioni – osserva De Virgilio -. Poi si è aperta una seconda fase, che prosegue tuttora, in cui i medici delle Usca sono stati impiegati per i tamponi, per i vaccini a domicilio e negli hub vaccinali e anche nelle attività di contact tracing».
Un lavoro faticoso, in cui la componente umana non è affatto secondaria, perché un medico a casa è spesso un ancora di salvezza in un momento difficile. «È stata un’esperienza molto forte – racconta Nadia Neri -. A volte facevamo visite domiciliari mattina e sera, anche fuori dall’orario di servizio, perchè soprattutto nel primo periodo i casi aumentavano a dismisura, molte persone erano spaventate e non sapevano a cosa sarebbero andate incontro. Molti ci hanno conosciuto vedendoci solo negli occhi o semplicemente per la nostra voce, ma con loro si è creato un rapporto speciale».
Nei giorni scorsi in una lettera aperta rivolta al Ministro della Salute Roberto Speranza alcuni medici Usca, tra cui Cesare De Virgilio, hanno spiegato le loro ragioni e ricordato che “smantellare le Unità è un errore madornale”.
«Il mondo chiede una sanità quanto più possibile vicina ai cittadini – spiega De Virgilio -. Gli ospedali a volte sono cattedrali nel deserto. Per questo occorre immaginare un modello coordinato con i medici di base, una guardia medica diurna che vada a visitare i pazienti. Potremmo essere una sorta di braccio operativo dei MMG».
«Ci occupiamo di pazienti che hanno necessità di uno stretto monitoraggio mattina e sera e di frequenti visite domiciliari – ricorda la dottoressa Neri -. Per questo l’idea di smantellare le Usca mi lascia perplessa: come può un servizio di medicina generale che già presenta una grossa carenza di medici avere la possibilità di effettuare questo tipo di lavoro, accessi e visite domiciliari che richiedono anche una certa tempistica? Con l’arrivo dell’influenza noi potremmo essere un servizio che fa una diagnosi differenziale tra semplice febbre e Covid. La pandemia non è ancora finita».
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