I cittadini che hanno superato la malattia devono affrontare ostacoli che impediscono di riprendere un’esistenza normale. «Troppo generica la definizione di sopravvissuti. Serve una norma che tuteli le persone che hanno la stessa aspettativa di vita di chi non ha ricevuto la diagnosi»
Sono 3,6 milioni i cittadini in Italia che vivono dopo la diagnosi di cancro. Il 27%, circa un milione di persone, può essere considerato guarito perché si è lasciato la malattia alle spalle e non necessita di trattamenti. Purtroppo, oggi, alla guarigione clinica non corrisponde ancora quella sociale. I guariti devono affrontare ostacoli che impediscono loro di riprendere una vita normale dopo la conclusione delle cure antitumorali: sono discriminati nell’accesso ai servizi finanziari, ai prestiti bancari o quando chiedono di sottoscrivere mutui o polizze assicurative. Per questa immensa platea di persone, che hanno ricevuto una diagnosi di cancro e sono guariti, sono necessarie norme che consentano loro un reale ed effettivo ritorno alla vita dopo il cancro, alla pari delle persone sane.
È il cosiddetto “diritto all’oblio”, per cui un paziente oncologico non deve essere costretto a dichiarare la pregressa patologia, trascorso un certo periodo di tempo dalla diagnosi e dalla conclusione dei trattamenti. La richiesta viene da oncologi e pazienti in una conferenza stampa a Roma alla Camera dei Deputati per la presentazione del libro “Guariti e Cronici. Manuale di Oncologia Clinica” (a cura di Armando Santoro, Antonella Surbone, Paolo Tralongo, ed. Edisciences).
La Francia è stato il primo Paese a stabilire per legge che le persone con pregressa diagnosi oncologica, trascorsi dieci anni dalla fine dei trattamenti o cinque per coloro che hanno avuto il tumore prima della maggiore età, non sono tenute ad informare gli assicuratori o le agenzie di prestito sulla loro precedente malattia. Ad oggi, dopo la Francia, Belgio, Lussemburgo, Olanda e più recentemente il Portogallo hanno adottato una disciplina analoga, ma anche altri Paesi stanno affrontando questa problematica.
«Nei prossimi mesi – annuncia Francesco De Lorenzo, Presidente FAVO (Federazione italiana delle Associazioni di Volontariato in Oncologia) – Alleanza Contro il Cancro, insieme a tutti gli IRCCS oncologici e con AIOM (Associazione Italiana di Oncologia Medica) e Aimac, pubblicherà un position paper sul modello italiano sulla survivorship care e sulle motivazioni che dovranno essere alla base del riconoscimento legislativo del ‘diritto all’oblio’ delle persone guarite dal cancro, presupposto per abbattere lo stigma cancro uguale morte e per il superamento delle barriere che ne derivano».
«Sotto l’ampia definizione di ‘sopravvissuti’ al cancro, oggi sono inclusi pazienti che vivono con neoplasie cronicizzate e caratterizzate da remissione alternata a recidiva; quelli il cui tumore progredisce lentamente, spesso accompagnato da una qualità della vita accettabile; quelli che, dopo anni di assenza di malattia, possono essere dichiarati guariti e quelli che sono in remissione clinica per lunghi periodi di tempo o per tutta la vita – spiega Armando Santoro, Direttore Humanitas Cancer Center dell’Istituto Clinico Humanitas IRCCS, Rozzano (Milano) -. Riteniamo che serva una nuova categorizzazione, meno rigida rispetto a quella adottata in Francia, considerando cioè la possibile evoluzione di ogni tumore».
Come spiega il dottor Santoro, infatti, «il tempo necessario a raggiungere la stessa attesa di vita della popolazione generale e a definire la persona guarita varia in relazione alle diverse neoplasie ed è inferiore a 5 anni per il cancro della tiroide e inferiore a un decennio per quello del colon e il melanoma. Per alcuni tumori frequenti, come quelli della mammella e della prostata, un eccesso di rischio che la malattia si ripresenti, sebbene esiguo, si mantiene molto a lungo, per oltre 20 anni. Anche per le persone con tumori della vescica o del rene, linfomi non-Hodgkin (in particolare i linfomi a grandi cellule B o follicolari), mielomi e leucemie, soprattutto per le varianti croniche, un eccesso di rischio rispetto alla popolazione generale permane per oltre 15 anni dopo la diagnosi».
«Proprio come i trattamenti antitumorali che sono sempre più mirati a sottogruppi di pazienti, così anche gli interventi sulla lungovivenza devono essere personalizzati nella pratica clinica – aggiunge Giordano Beretta, Presidente Fondazione AIOM -. Molti pazienti, trascorso un certo numero di anni dalla diagnosi, si considerano guariti e vogliono essere così dichiarati anche dai loro oncologi. Ciononostante, alcuni clinici sono ancora riluttanti ad applicare il termine ‘guarito’, temendo di aumentare speranze che potrebbero essere deluse, preferendo espressioni come ‘nessuna evidenza di malattia’ o ‘remissione’, la cui risonanza è diversa per pazienti e professionisti. Un’adeguata categorizzazione dei pazienti oncologici – conclude – può invece facilitare la loro adesione alla sorveglianza proposta dai clinici, includendo le misure per favorire il mantenimento di una buona salute generale grazie a stili di vita sani».
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