di Giovanni Delogu, Dirigente Medici di Neurologia Ospedale di Livorno Azienda Toscana Nord Ovest
La prima questione
L’efficacia dei vaccini oggi appare “pubblicamente” intesa come capacità di prevenire i casi di ospedalizzazione. Ma le premesse per l’approvazione del Comirnaty, nel dicembre del 2020 erano assai differenti. Come si evince dallo studio pubblicato sul NEJM del 10 dicembre 2020: “Safety and Efficacy of the BNT162b2 mRNA Covid-19 Vaccine”e dalla Guidance for industry: emergency use authorization for vaccines to prevent COVID-19. October 2020 della Food and Drug Administration, il “primary end point” fissato per quello studio era la capacità del vaccino di prevenire l’infezione da COVID 19 mentre il “secondary end point” la “preliminary evidence of vaccine mediated protection against severe disease” ovvero, la potenzialità di ridurre le infezioni più gravi.
I termini, a soli pochi mesi di distanza, sembra si siano invece invertiti: l’efficacia dei vaccini è ora quella di prevenire i casi più gravi e le ospedalizzazioni mentre la prevenzione dei contagi passa in secondo piano. Questo risultato in termini pratici sarebbe anche accettabile come compromesso di salvezza globale ma non bisognerebbe mai scordarsi che le premesse scientifiche restano comunque differenti.
Per quale motivo è fondamentale che si ragioni in termini di evidenze e non di riscontri pratici sul campo?
Almeno per due ragioni:
Nel caso concreto: le indicazioni su una terza dose di richiamo non possono fondarsi sull’evidenza, pure assodata, che i vaccini riducono le ospedalizzazioni e non le infezioni. Le ospedalizzazioni nei vaccinati sono nettamente inferiori e così la mortalità per Covid e si tende a ragionare pensando che una terza dose ridurrà nei vaccinati questa probabilità. Ma le varianti intervenute per valutare l’efficacia del ciclo vaccinale al di fuori dell’ambito dello studio, in fase di post-produzione, ovvero sul campo, sono molto meno controllabili.
Il ceppo su cui venne approntato il vaccino era differente dalla variante Delta. Oggi si è concluso che i vaccini siano efficaci “anche sulla variante Delta” perché le ospedalizzazioni restano ridotte ma le infezioni aumentano: ovvio.
Come si può essere certi che le reinfezioni dipendano da una riduzione dell’efficacia del vaccino e non, semplicemente, dal fatto che esso era invece mirato a prevenire le infezioni per un virus che è variato ma per il quale il precedente vaccino mantiene una salvifica capacità possibilmente “crociata”? Impossibile: le nuove infezioni sono praticamente tutte da variante Delta. Ammonisce Pfizer che la “reduction in vaccine effectiveness against SARS-CoV-2 infections over time is probably primarily due to waning immunity with time rather than the delta variant escaping”. Probably.
Insomma, il problema, retrospettivamente, lo hanno affrontato ma la soluzione è prospettica e resta perciò aperta.
E allora: serve davvero una terza dose?
Bisogna a questo punto capire se abbia ragione la Pfizer oppure il Lancet a partire dal coraggioso editoriale di Philip Krause del 13 settembre scorso:
“non sembra che le evidenze attuali indichino la necessità di un richiamo nella popolazione generale, nella quale l’efficacia contro una forma grave di malattia resta alta. Anche quando l’immunità umorale sembra attenuarsi, la riduzione del titolo degli anticorpi neutralizzanti non necessariamente predice la riduzione dell’efficacia del vaccino nel corso del tempo…”
Il Dr Krause era in quel momento dimissionario dall’FDA dopo aver operato per oltre un ventennio in qualità di “Top Vaccine Regulator”. Le ragioni si comprendono facilmente dal “view point” del Lancet e da quanto riportato sul NYT dell’epoca. La Dr.ssa Marion Gruber, coautrice del medesimo View Point, la quale ricopriva la carica di “Director of the F.D.A.’s vaccines office” era invece pensionanda. Insomma, due “frilli” dell’FDA. Le dimissioni di Krause e la linea del Lancet sono la voce di una visione differente rispetto agli orientamenti praticamente pseudoscientifici che ormai hanno “sedotto”, in nome di una retorica di pandemico terrore, il pensare comune e le decisioni in ambito sanitario mondiale.
Perché pseudoscientifici?
Una ragione già l’ho esposta: l’efficacia dei vaccini non come prevenzione di un’infezione ma della gravità di una malattia.
Il Dr Krause e la Dr.ssa Gruber, due maxi-esperti in vaccini dell’FDA sostengono che si debba attendere sul “booster” mentre il divulgatore Sestili afferma che invece “non si debba indugiare”. Sulla base di quali evidenze di efficacia dei richiami, se di evidenze schiette, al di fuori di qualche timido risultato, non ve ne sono?
Per dirla col Lancet di alcuni giorni fa: COVID-19: is the rush to boost backed by science?
(Covid-19: quanto la rincorsa alla terza dose è supportata dalla scienza?)
La seconda questione, forse anche più grave, è questa: sulla base di quale presupposto scientifico si può sostenere (vengo alla ragione del mio intervento) che “bisogna vaccinare i bambini dai 5 agli 11 anni”? Perché lo fanno negli Stati Uniti? Qual è l’evidenza sulla quale si basa questa decisione?
Anche qui si sono invertiti i termini: se prima si adottavano decisioni sanitarie sulla base di risultati di studi clinici (più o meno sponsorizzati) ora sembrano sufficienti i soli annunci. L’FDA attuale ha infatti già autorizzato in emergenza la vaccinazione nei bambini tra i 5 e gli 11 anni dal 29 ottobre scorso. Questo invece lo studio pubblicato successivamente, qualche giorno fa sul NEJM. “Evaluation of the BNT162b2 Covid-19 Vaccine in Children 5 to 11 Years of Age”. Se per dimostrare “efficacy and safety” del proprio vaccino la Pfizer nel citato studio del 2020 contava inizialmente su 44.820 arruolati adulti, in quello “ongoing” e in fase 1 sono invece sufficienti 48 bambini. Sarebbero ufficialmente “4,700 children 5 through 11 years of age” (ancora “non pervenuti” al NEJM) per cui all’FDA sembra che “basti la parola” (la citazione presa in prestito dal carosello di un famoso confetto medicinale non è casuale).
Ma ammesso che 4700 bambini fossero pure sufficienti, con le nuove “evidenze raccolte sul campo”, ovvero che a ridursi è l’ospedalizzazione e non la prevenzione di nuovi contagi, la quale dopo circa 5 mesi sembra calare poco al di sopra del 50% (sempre che non si tratti di un bias legato alla variante Delta), ogni quanti mesi bisognerebbe allora fare un richiamo a questi bambini per prevenire un’ospedalizzazione assai rara, se non rarissima, in terapia intensiva?
Al riguardo infatti desidero citare un’autorevole fonte britannica: il Joint Committee on Vaccination and Immunisation (JCVI).
Il JCVI si pronuncia in questi termini di rischio-beneficio nei bambini tra i 12 e i 15 anni (quelli tra 5 e 11 non sono considerati poiché di vaccinati per questa fascia di età ancora non ne esistono; ancora per poco…). Stante il rapporto del JCVI (tab. 2), il numero di casi di ricoveri evitati in terapia intensiva per milione di bambini sarebbero 2,5.
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